la Repubblica, 23 marzo 2019
Minigonna, la libertà in un centimetro
Quella della minigonna è l’unica rivoluzione del Novecento che non sia finita in tragedia. E la sola ad aver mantenuto le sue promesse di liberazione. È fuor di dubbio, infatti, che quei pochi centimetri di tessuto zippati di provocazioni, allusioni, mutazioni, ribellioni, hanno potuto più di ogni manifesto femminista. Perché hanno tradotto il desiderio di emancipazione delle donne, occidentali e non solo, nel linguaggio del corpo. Il più concreto e universale, visto che non ha bisogno delle parole per farsi capire.
In fondo è da sempre che l’abito, soprattutto quello femminile, fa il monaco perché apparentemente prende le misure al corpo in carne e ossa, ma in realtà disegna ogni volta il suo modello ideale. Stilizza cioè quel format femminino che riempie le vetrine dell’immaginario e condiziona la vita reale del secondo sesso. Non a caso l’accorciamento dei vestiti – orli e maniche – è da sempre direttamente proporzionale al livello di autodeterminazione dell’altra metà del cielo. Fu così negli anni Venti quando le svolazzanti gonnelline charleston salirono ben sopra il ginocchio mandando a quel paese longuettes e crinoline, gonnelloni e bacchettoni. E fu così nel 1963, nel clima effervescente dei Sixties, ben prima che scoppiasse il Sessantotto, quando Mary Quant ( alla quale è dedicata una mostra a Londra, come raccontiamo nella pagina accanto), sparò la sua skirt ad alzo zero colpendo al cuore il maschilismo patriarcale che aveva sempre chiesto a consorti, sorelle, figlie e amanti di coltivare vizi privati ed esibire pubbliche virtù. Ora ad esibirsi erano le gambe: era iniziata l’era dell’apparenza ingonna. A ispirare la stilista inglese fu l’auto Mini Minor, creata qualche anno prima dal designer Alec Issigonis che voleva svecchiare le quattroruote adeguandole a un modo di vivere giovane, informale, disinibito.
In realtà il riconoscimento di maternità della gonnella inguinale non avvenne senza colpo ferire. Il celebre stilista André Courrèges si attribuì a lungo la paternità dell’indumento fatto a immagine e somiglianza del Novecento: un capo corto per il secolo breve. Ma nonostante l’invenzione se la attribuiscano anche altri fashionist meno celebri, ormai nel lessico della moda contemporanea si scrive mini skirt e si legge Mary Quant. Che per la verità con understatement molto britannico ha sempre ammesso che ad inventare la gonna più sognata di sempre non è stata lei, ma la strada. E quale strada sarebbe stata in grado di partorire questa idea vincente e trasgressiva se non King’s Road, la via della moda che si distende tra Chelsea e Fulham? Quella via che dagli anni Sessanta è l’epicentro creativo della Swinging London, la città dei Beatles e dei Rolling Stones, degli Who e di Marianne Faithfull, immortalata dall’obiettivo di David Bailey, che insieme a Richard Avedon e Helmut Newton riscrive i canoni della bellezza femminile facendo delle gambe scoperte di Twiggy e di Jean Shrimpton un’arma più contundente delle molotov e perfino degli zoccoli femministi.
Non a caso le reazioni dei guardiani della morale e del pudore altrui furono violentissime. E la minigonna diventò l’emblema del male, nonché del malcostume. In realtà l’autogoverno del corpo rivendicato dalle ragazze mandava in frantumi l’immagine familiare e familista, sottomessa e materna di un femminile oblativo e non seduttivo, sublimato nelle virtù domestiche.
Ma la prova del valore rivoluzionario di questo pezzettino di stoffa è l’ostilità di cui è ancora oggetto in quei Paesi dove conservatorismo e misoginia vanno a braccetto, come in molti stati islamici. L’amica Azar Nafisi, celebre scrittrice iraniana e autrice del bestseller Leggere Lolita a Teheran, per sintetizzare le libertà civili di cui godeva il suo popolo nell’era pre– khomeinista ripete sempre: «Quando mio padre era sindaco di Teheran, le ragazze andavano tutte in minigonna».
Ma anche da noi i rigurgiti censorii non si sono mai del tutto esauriti, tant’è che tornano periodicamente a farsi sentire. Proprio di recente a Resia, un paesino del Friuli, il vicario parrocchiale don Alberto Zannier ha scagliato un anatema contro le gambe scoperte delle giovani parrocchiane paragonandole a prosciutti appesi all’aria. Il sacerdote ha arricchito la sua reprimenda di metafore gastronomiche, tipo” carne al vento” o “cosce resiane Igt”. Rivelando, dietro l’apparente ironia, la stessa volgarità di quell’immaginario maschile che mortifica le donne definendole pollastre e bisteccone. Lo stesso immaginario patriarcale che accusa le ragazze in minigonna di andarsi a cercare le molestie. Perché le vorrebbe protette e prigioniere della famiglia sovranista. Insomma la strada è ancora lunga, ma dopo la rivoluzione di Mary Quant non si può più tornare indietro.