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 2019  marzo 23 Sabato calendario

Confessioni di Francesca Lo Schiavo

«Ci sediamo qui?». I premi sulle mensole intimidiscono un po’: gli Oscar, i David, i Nastri d’argento, i Bafta, medaglie, pergamene, diplomi, onorificenze. Francesca Lo Schiavo, set decorator («in Italia non sanno mai come chiamarmi, può tradurre “arredatore per il cinema"»), si aggira nella casa assolata sui tetti di Roma, a due passi da Trinità dei Monti. L’ultimo premio che si è aggiudicata, il David di Donatello speciale alla carriera (le verrà consegnato mercoledì durante il gala su Rai 1), la rende orgogliosa: «È un riconoscimento dato dall’Italia» spiega, «ha un valore diverso anche se nel nostro paese è annullata la mia figura professionale, se escludiamo Paolo Sorrentino».
Col marito, lo scenografo Dante Ferretti, una vita insieme sul set, ha vinto tre Oscar – per The Aviator di Martin Scorsese (2004), Sweeney Todd di Tim Burton (2007) e Hugo Cabret nel 2011, ancora Scorsese. Eccellenze italiane, hanno conquistato Hollywood. Le foto con Papa Francesco, Scorsese e DiCaprio, i figli Melissa e Edoardo sorridenti. Alla parete incorniciato come un’opera d’arte, il collage dei fogli con le nomination (sei, prima di aggiudicarsi finalmente il primo Oscar). «Eravamo la favola di tutti gli amici», racconta sorridendo Lo Schiavo «non vincevamo mai. Per The AviatorDante non voleva venire a Los Angeles. Mia figlia mi disse: “Partiamo io e te”. Poi naturalmente ci raggiunse con Edoardo. Quell’anno schierarono i candidati in palcoscenico, il vincitore avrebbe dovuto fare un passo in avanti. Quando ci hanno chiamato ho provato una sensazione di gelo. L’emozione fa brutti scherzi. Il secondo Oscar per il film di Tim Burton non ce l’aspettavamo. Quando hanno aperto la busta e ho sentito i nostri nomi, è stata come l’esplosione di una bomba. Il premio per Hugo Cabret ? Pura felicità».
Spiritosa, maniaca dei dettagli, fasciata nel wrap dress nero di Diane von Furstenberg, spilla scintillante a forma di libellula, Lo Schiavo spiega come il cinema le abbia aperto la mente. «Da ragazza non perdevo un film. Dopo il liceo classico mi ero iscritta a Legge» racconta, «poi sono entrata in uno studio di arredamento. Avevo la passione per i colori e le stoffe. Quando ho incontrato Dante mi sono resa conto che sul set c’era la figura dell’arredatore, ed erano molto bravi. Ho capito che era la mia strada». Come ha incontrato suo marito? «Ci presentò Fabrizio De André in Sardegna, ero amica della moglie Puny. Dante inaugurava la mini casa in Gallura. Chiacchierando abbiamo scoperto che tenevamo le macchine a Roma nello stesso garage. No», ride, «non è stato un colpo di fulmine. Abbiamo cominciato a frequentarci tempo dopo».
Coppia inossidabile, ma gli inizi insieme sul set non sono stati facili. «Volevo lavorare nel cinema, dissi a Dante: “Ho pensato che potrei cominciare”. Apriti cielo, opposizione netta. Mi consigliò di lasciar stare, che stavo facendo un altro percorso. Ma io non volevo arredare le case, mi affascinava il set. Ho fatto la gavetta vera, Dante non mi presentava i registi. Mi sono impegnata per imparare i ritmi, capire come rendermi utile. Poi c’è stata l’opportunità di lavorare con Fellini per il film E la nave va… Dante non me lo presentò. Come assistente dovevo occuparmi delle cabine, l’arredatore Massimo Tavazzi mi mandò dagli antiquari che conoscevo bene, a scegliere lampade e mobili. Fellini mi inserì nei titoli di coda: “Lei ha fatto il lavoro di arredatore e non di assistente”. Per me ha significato tutto e anche per Dante: non ha potuto più nascondermi».
Lavora al Nome della rosa di Jean Jacques Annaud, poi con Terry Gilliam per Le avventure del barone di Munchausen. «Mi sapevo organizzare bene», spiega Lo Schiavo, «avevo i tempi. Dante pensava sempre che avrei smesso, avevo due figli da crescere. Ma ho lavorato sempre, i miei genitori mi hanno dato una grande mano». Come si divide un set col proprio marito? «Ci siamo rispettati molto. Si vivono momenti difficili, un grande film è come una nave che parte e può esserci tempesta. Sono una compagna di viaggio solida, ho conquistato la fiducia di Dante. Attraverso i film parliamo di lavoro, però poi ognuno fa le proprie cose; siamo diventati complementari mantenendo l’autonomia. Litighiamo sempre, ma mai sul lavoro. È la parte migliore del nostro rapporto».
Ha lavorato con i più grandi: il preferito? «Devo tanto a Martin Scorsese, ho fatto sei film con lui. È di poche parole ma capisco quello che vuole. Sul set non puoi sbagliare. Ero molto preoccupata quando ho collaborato con Tim Burton. Per Sweeney Todd aveva idee precise ma non spiegava niente. A quel punto sono stata sfacciata. Avevo un studio piccolo piccolo, ho sparpagliato foto e stoffe sul pavimento. Quando è entrato si è seduto per terra con me e ho capito come orientarmi». L’aspetta Killers of the flower moon il nuovo film di Scorsese con DiCaprio. «Non vedo l’ora, incrociamo le dita».