Alcune aziende si sono chiamate fuori da sé. Leonardo per esempio, per non rischiare mal di pancia americani, ha pensato bene di non sbandierare le sue forniture per l’aereo civile cinese. Huawei, pomo della discordia globale, ha congelato il suo accordo di ricerca con un Politecnico italiano, nonostante la cooperazione nelle "telecomunicazioni" rimanga nel testo del memorandum sulla Via della seta. Da altre parti invece non si è proprio trovato l’accordo: Unicredit doveva entrare nel private equity cinese alleandosi con una banca locale, nulla da fare. Così come per il veicolo di investimento congiunto che Cassa depositi doveva creare con il potentissimo fondo sovrano Cic, pare manchi l’accordo sui settori.
Fincantieri pure ha declinato, di commesse in Cina ne ha già a sufficienza.
Sui porti Pechino ottiene comunque l’obiettivo minimo.
Cccc, il suo colosso delle costruzioni, entra sia nel retromolo di Trieste, nei nodi ferroviari che smistano i container verso l’Europa, sia tra le banchine di Genova. Soprattutto qui potrebbe essere la testa di ponte per altri investimenti. Sembrano sparite invece le intese ipotizzate su altre infrastrutture, dalle ferrovie alle reti elettriche. Resta quella tra Snam rete gas, e il fondo Silk Road, che riguarda Cina e Paesi terzi. Il made in Italy porta a casa qualcosina. Una centrale in Azerbaijan per Danieli, una turbina di Ansaldo. Nel commercio arriva finalmente il via libera all’esportazione delle arance, a cui si aggiungono il maiale surgelato e il seme bovino.
Non sarà questo a riequilibrare i nostri saldi commerciali, né i vari accordi culturali o tecnologici tra ministeri. Ma è solo l’inizio della "nuova era" tra Italia e Cina, e i contratti usciti dalla porta a Roma possono rientrare dalla finestra a Pechino, dove il premier Conte sarà tra un mese al "Belt and Road Forum". Anche lì bisognerà firmare intese, magari con meno attenzioni addosso. Intanto Xi Jinping riparte da Roma con quello che voleva in valigetta: l’Italia è nella Via della seta.