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 2019  marzo 23 Sabato calendario

Gli accordi Italia-Cina: 29 intese per 7 miliardi

I porti alla fine ci sono: la Cina alza bandiera sia a Genova sia a Trieste; per ora una bandierina, poi chissà. Ci sono solo due contratti veri, per Danieli e Ansaldo, siderurgia e turbine. C’è qualche prodotto alimentare tricolore, come le arance, che vede aprirsi le porte del mercato cinese. Pechino avrebbe voluto anche una partita di serie A, ma le regole Fifa lo vietano. Avranno qualche incontro delle nazionali e delle coppe nazionali, più il Var. Dovranno accontentarsi.
C’è la nostra Cassa depositi e prestiti che emetterà circa 600 milioni di euro di Panda bond, in valuta cinese, per finanziare le imprese. Nel complesso gli accordi dovrebbero valere circa 7 miliardi. Ma a scorrere l’ultima bozza delle intese che questa mattina verranno firmate tra Italia e Cina a Roma l’impressione è che si tratti in fondo di poca cosa: 29 accordi in tutto, la maggior parte istituzionali, solo dieci tra aziende. Pochino dal punto di vista italiano, non certo una pioggia di investimenti miliardari, e pochino anche da parte cinese, rispetto all’ipotizzata colonizzazione dello Stivale. Se non fosse che per Xi Jinping la vera vittoria, tutta politica, è la prima delle firme in scena oggi: l’adesione dell’Italia, primo Paese del G7, alla sua Via della seta. Ma per fare affari ci saranno altre occasioni, ora che Roma è a bordo. Doveva essere ben più lungo l’elenco dei memorandum. Solo un paio di settimane fa dal Mise ne assicuravano "decine", le prime ipotesi mettevano l’asticella sopra i 50. Solo che dopo la reazione di Washington e Bruxelles il governo ha cambiato attitudine. Parola d’ordine: emendare e ridurre, specie nei settori più sensibili.
Alcune aziende si sono chiamate fuori da sé. Leonardo per esempio, per non rischiare mal di pancia americani, ha pensato bene di non sbandierare le sue forniture per l’aereo civile cinese. Huawei, pomo della discordia globale, ha congelato il suo accordo di ricerca con un Politecnico italiano, nonostante la cooperazione nelle "telecomunicazioni" rimanga nel testo del memorandum sulla Via della seta. Da altre parti invece non si è proprio trovato l’accordo: Unicredit doveva entrare nel private equity cinese alleandosi con una banca locale, nulla da fare. Così come per il veicolo di investimento congiunto che Cassa depositi doveva creare con il potentissimo fondo sovrano Cic, pare manchi l’accordo sui settori.
Fincantieri pure ha declinato, di commesse in Cina ne ha già a sufficienza.
Sui porti Pechino ottiene comunque l’obiettivo minimo.
Cccc, il suo colosso delle costruzioni, entra sia nel retromolo di Trieste, nei nodi ferroviari che smistano i container verso l’Europa, sia tra le banchine di Genova. Soprattutto qui potrebbe essere la testa di ponte per altri investimenti. Sembrano sparite invece le intese ipotizzate su altre infrastrutture, dalle ferrovie alle reti elettriche. Resta quella tra Snam rete gas, e il fondo Silk Road, che riguarda Cina e Paesi terzi. Il made in Italy porta a casa qualcosina. Una centrale in Azerbaijan per Danieli, una turbina di Ansaldo. Nel commercio arriva finalmente il via libera all’esportazione delle arance, a cui si aggiungono il maiale surgelato e il seme bovino.
Non sarà questo a riequilibrare i nostri saldi commerciali, né i vari accordi culturali o tecnologici tra ministeri. Ma è solo l’inizio della "nuova era" tra Italia e Cina, e i contratti usciti dalla porta a Roma possono rientrare dalla finestra a Pechino, dove il premier Conte sarà tra un mese al "Belt and Road Forum". Anche lì bisognerà firmare intese, magari con meno attenzioni addosso. Intanto Xi Jinping riparte da Roma con quello che voleva in valigetta: l’Italia è nella Via della seta.