La Stampa, 23 marzo 2019
Il Giappone riconosce gli indigeni Ainu
Costretti a esprimersi in una lingua che non era la loro, e ad adottare costumi che nulla avevano a che fare con la propria memoria storica, ora finalmente gli Ainu, come già tanti altri gruppi autoctoni prima di loro, avranno giustizia (almeno quella sulla carta). Saranno, cioè, riconosciuti nella loro unicità di popolo indigeno dallo stesso Paese che li aveva voluti uniformare a tutti i costi.
Il governo giapponese ha introdotto un disegno di legge che promette di proteggere e dunque eliminare ogni forma di discriminazione contro il popolo degli uomini dalle grandi barbe e delle donne dalle labbra tatuate (usanza scomparsa proprio in virtù di quell’assimilazione forzata).
Sarà obiettivo della nuova legislazione far sì che quella popolazione, ridotta ormai a 23 mila anime possa ritrovare una qualità di vita più dignitosa, visto che oggi ben il 56% degli Ainu è impiegato nei settori primario (agricoltura, pesca) e secondario (manifatturiero e industria pesante). Il 23% ha una laurea contro il 43% dei giapponesi.
Che una legge in questo senso fosse necessaria, lo dicono cronache non lontane nel tempo: quattro anni fa, un membro dell’Assemblea della Prefettura di Hokkaido aveva affermato che gli Ainu non sono un popolo indigeno del Nord del Giappone, scatenando una valanga di critiche dalla comunità internazionale che proprio in quei giorni si riuniva in una conferenza mondiale sui gruppi indigeni.
Alle radici del popolo
Una tradizione orale che sconfina in leggenda, li vorrebbe abitanti di Hokkaido centomila anni prima della venuta del figlio del Sole. Di loro, si sa di certo che vivevano in quelle terre ben prima dell’arrivo dei popoli yamato (gli attuali giapponesi). E questi ultimi, durante la restaurazione Meiji, resero il gruppo indigeno oggetto di uno studio capillare, freddamente scientifico, orribilmente invasivo. Ricordava qualche anno fa poco prima di morire un noto politico Ainu, il primo della minoranza a partecipare alla Dieta giapponese: «I giapponesi venivano qui a scavare le nostre tombe sacre, portando via le ossa ancestrali». Con il pretesto della ricerca, «prendevano il sangue dagli abitanti del villaggio e per esaminare quanto fossimo pelosi ci rimboccavano le maniche, poi ci abbassavano i colletti per controllare le nostre spalle». Tutte procedure di meticoloso calcolo «lombrosiano», che già davano il senso dello spessore di quei pregiudizi che di lì a poco avrebbero alimentato le ben più insensate teorie sulla razza.
La popolazione indigena risiede anche in minima parte nella penisola russa Sakhalin. La prima legislazione che chiama in causa il gruppo etnico risale alla fine dell’800, con l’atto di protezione del popolo aborigeno dell’Hokkaido, modellato sul Dawes Act del 1887. Ovvero il tentativo riuscito da parte del governo degli Stati Uniti di espropriare le terre indiane a vantaggio dei non nativi, mascherandolo come una benevola concessione di diritti a favore degli indigeni stessi. Ecco che gli Ainu, considerati popolo inferiore furono costretti a lavorare la terra ignorando che per secoli si erano dedicati unicamente alla pesca e alla caccia. Disorientati e scoraggiati da un lavoro che non conoscevano, finirono per ingrossare le file di manovali nelle fabbriche e nelle miniere, sfruttati e malpagati.
Negli anni a seguire, il pacifico gruppo etnico che cingeva alla vita piccole spade dette «ipetam», tutte arrugginite perché non utilizzate (dovevano servire solo in caso di autodifesa) sarebbero stati coscritti forzosamente nell’esercito nipponico, per combattere contro la Russia nel 1904 e poi nella Seconda Guerra Mondiale, dove si distinsero per forza e statura. Ci restano rare memorie di ufficiali australiani che raccontano di aver visto questi «particolari» soldati in battaglia: non potevano credere che fossero davvero giapponesi, erano alti e robusti. Si convinsero che dovevano essere tedeschi mascherati. In realtà il loro Dna smentisce chi li vorrebbe effettivamente di origini caucasiche: la loro carnagione è più chiara. Trovano conferme le ipotesi che siano imparentati con tribù delle isole Andamane e con i tibetani.
Come vivono oggi
Oggi, ad Hokkaido gli antichi rituali come quello del «i omante» (in lingua Ainu), cioè il rito dell’uccisione di un orso, sono praticamente scomparsi. La popolazione si dedica per lo più ai lavori col legno, kibori, creando sculture da rivendere ai turisti. I problemi in termini di istruzione, status socioeconomico e qualità della vita rimangono.
Dopo un secolo di rigide politiche di assimilazione, sarà difficile per loro tornare a stili di vita tradizionale. Erano i primi, negli anni più duri della sottomissione, a incoraggiare i matrimoni misti per sfuggire alla discriminazione. L’illusione che basti gettare una manciata di fondi per ricostituire un’intera civiltà è una delle tante velleità della politica. Lo sanno bene i giapponesi che conoscono il detto «fukusui bon ni kaerazu», una volta che l’acqua è stata versata dalla ciotola quella non torna più indietro.