La Stampa, 23 marzo 2019
Sedotti dal Faraone d’Oriente
Quando George W. Bush venne in visita di Stato - era il 2004, la guerra in Iraq era cominciata l’anno prima - ai pacifisti fu concesso il centro. «Grandioso», gongolò Fausto Bertinotti alla testa di Rifondazione comunista e del corteo ottimisticamente valutato di duecentomila partecipanti. Cantarono «Bush credeva che Roma fosse sua / il popolo ha risposto: ma li mortacci tua», e la romanità fu salva, cioè quella frusta e meravigliosa attitudine a ricondurre i grandi alla loro inevitabile e grottesca umanità.
Ora che tocca a Xi Jinping, presidente della Repubblica popolare cinese e segretario generale del partito comunista turbocapitalista, i piedistalli sono stati ritirati fuori e lucidati con tanto olio di gomito. Niente manifestazioni, per carità: quella organizzata dai radicali per i diritti umani in Tibet sarà ospitata davanti alla sede Rai di viale Mazzini, molto al di fuori della Città Proibita trasportata da Pechino a qua, un pezzo di Roma inviolabile a maggior comodità e somma dignità dell’ospite. È anche abbastanza comprensibile: se l’uomo con le tasche piene vuole fare affari con te, un inchino non glielo neghi. E nonostante il nervosismo di Emmanuel Macron e Angela Merkel, e nonostante sia non del tutto immotivato.
Come hanno segnalato da Parigi e da Berlino non c’è una grande reciprocità fra il mercato europeo e quello cinese, piuttosto noncurante nel rispetto dei marchi e nella produzione piratesca, per dirne solo una. E sarebbe stato meglio contenere un bilaterale così impegnativo e così noncurante dell’Ue. Ma conosciamo le disinvolture di questo governo, e conosciamo gli orizzonti che gli accordi schiuderanno (speriamo soltanto in positivo). Però, davanti alla città corazzata, davanti all’esibizione di pompa alla Don Gaetano (il borghese che in Miseria e nobiltà riceve in suprema cerimonia il principe di Casador, ovvero Totò), verrebbe una gran voglia di rimodulare qualche liberatoria romanità.
Il molto illustre Xi Jinping è entrato ieri mattina al Quirinale scortato dai corazzieri a cavallo, una cosa che non si vedeva dalla visita della regina Elisabetta nel 1961. I cavalli non furono estratti dalle scuderie nemmeno due anni dopo per John F. Kennedy, è capitato giusto per qualche Papa, ma nel 2017 Francesco I trovò più consono, per dire, arrivare con una Ford Focus senza ingombro di equini. Per Xi Jinping sono pure comparsi dei valletti vestiti di rosso con feluche napoleoniche e sciabolette alla cintura. Si è fatto sperpero di uniformi, pennacchi, nastrini, e si sono radunate delegazioni di cinesi imbandierati ed estasiati (gli oppositori lontani, i sostenitori vicini: molto cinese), e si è deliziato il dopocena con la voce di Andrea Bocelli nella Cappella Paolina. Forse un pochino di zelo in meno ci avrebbe inorgoglito più dell’esibizione dell’argenteria della nonna, anche se, come probabile, su richiesta del Nuovo Imperatore.
Ecco, ci facciamo riconoscere sempre. O spesso. Silvio Berlusconi è uno che se ha gente a cena la festeggia con l’eruzione pilotata del vulcano meccanico, e dunque fu felice di mettere a disposizione di Muammar Gheddafi il parco di villa Pamphili, dove montare la tenda beduina e ritemprarsi alla vista di fiorenti amazzoni. Berlusconi si sa com’è (per il G8 del 2001 a Genova fece levare la biancheria stesa nei vicoli e legare agli alberi con fili di nylon dei limoni finti). Ma stavolta tira un’aria da bacio della pantofola, ed è inevitabile notare che, in un certo senso, l’avventura politica di Beppe Grillo cominciò nel 1986, quando pronunciò la famosa battuta sui socialisti che in Cina, essendo lì tutti socialisti, non sapevano a chi rubare; parlava della faraonica delegazione governativo-imprenditoriale guidata da Bettino Craxi che volò a Pechino col piglio dei grassi colonizzatori. Ora, trascorsi trentatré anni, e saliti a Palazzo Chigi i giovani ribelli figli di quella ribellione, ad atterrare a Roma sono i cinesi, più faraonici del faraone, e il piglio dei colonizzatori stavolta è il loro.