Tuttolibri, 23 marzo 2019
Intervista allo scrittore Antonio Lobo Antunes
«Per quale romanzo mi chiama?». Antonio Lobo Antunes non è tipo da mettersi lì a spiegare i suoi libri, «mica per cattiveria, è che non ne ho mai letto uno. Li consegno alla mia agenzia e poi me ne dimentico completamente». Non li avrà letti, ma di certo ne ha scritti molti, opere che gli hanno fatto guadagnare, quasi suo malgrado, una candidatura morale e permanente al Nobel. In libreria torna Lo splendore del Portogallo, scritto nel 1997 (era uscito nel 2002, con Einaudi e finito fuori catalogo). Un libro che, con un titolo sarcastico, racconta le vicende di una famiglia che fa i conti con i disastri dell’età coloniale.
Gli elementi del romanzo pubblicato da Feltrinelli sono quelli più frequenti della sua lunga bibliografia: l’eredità del colonialismo, una famiglia rotta e una nostalgia, forse mal riposta, verso l’Africa. Un’indagine senza fine sul dolore umano che, questa sì, lo scrittore portoghese vuole approfondire.
Scrivere le piace ancora?
«No, è una sofferenza. Ma non so che altro fare».
Quante ore la impegna la scrittura?
«Minimo dieci ore al giorno, più spesso dodici».
Non è troppo?
«No, quello di scrittore è un lavoro sopravvalutato. Ma è un mestiere come un altro, più ore ti impegni e meglio ti riesce».
Prima di abbandonarli che rapporto ha con i suoi libri?
«Totale. Sono sempre con me, li sogno la notte. Il mio corpo diventa come una casa piena di fantasmi».
In lavoro di revisione?
«Sì, è la cosa che mi costa più fatica. Il lettore non lo sa e ha diritto all’ultima versione. Ma passo mesi e mesi a correggere e cambiare il testo, è un lavoro che faccio con estrema difficoltà».
E dopo la consegna del manoscritto?
«Fine. Mi libero completamente. E aspetto di rimanere un’altra volta incinto».
Esce di casa spesso?
«Non molto, ogni tanto gli amici mi dicono di andare a cena fuori, e io ci vado. Ma non mi interessano i grandi chef, i ristoranti. Io sono stato nell’esercito e lì ho capito che si può sopravvivere anche mangiando di merda. Non bevo, o solo per brindare. Non mi sono mai ubriacato in vita mia».
Eppure alcuni suoi personaggi sono alcolizzati.
«Dice? Non mi ricordo»»
La guerra torna spesso nei sui romanzi, cosa le ha lasciato?
«È una cosa orribile, per me è durata 36 mesi. Nessuno si sente comodo con il suo passato, chi è stato in guerra ancora meno».
Nell’esercito si impara qualcosa?
«Sì, una cosa soprattutto: l’amicizia tra uomini. Mario Soares diceva che si mente a una donna e alla polizia politica, ma mai a un amico. In guerra ho capito cose che altrimenti non avrei mai colto: io ero un tenente e ho visto soldati che mi coprivano con il loro corpo affinché io non fossi colpito. Una generosità assoluta che non pensavo esistesse».
Ha amici scrittori?
«Sì, ho tanti amici con i quali condivido il modo di vedere il mondo. Bisogna volergli bene perché fanno un lavoro doloroso».
Parlate di libri?
«No. La letteratura è una cosa privata. Parlarne è come fare l’amore davanti agli altri».
Di che parlate?
«Di calcio per esempio».
Cristiano Ronaldo è uno “splendore del Portogallo”?
«Preferisco Mariolino Corso, era un poeta».
Ci dica dei libri che non le piacciono,
«Ce ne sono, certo. Ma non lo direi mai, bisogna essere affettuosi con gli scrittori. Una critica può distruggere una vita».
I lettori la amano molto, chiedono autografi e perfino i selfie: come li affronta?
«Ho avuto molta fortuna, la gente è davvero molto affettuosa con me e non me lo merito. Ho venduto un numero di copie incredibile, considerato che sono un impostore, un vile».
Perché vile?
«Occorre esserlo perché questo è un mestiere impossibile».
Lei lo ha voluto sempre fare?
«Sin da ragazzino».
Lei però è uno psichiatra.
«Sì, è stato un escamotage. Dissi a mio padre: “Voglio fare lo scrittore”. Lui rispose: “Ok, ma prima devi laurearti”. Così mi iscrissi a medicina. Quando scoppiò la guerra dovetti scegliere una specializzazione, la chirurgia mi avrebbe portato via troppo tempo e optai per la psichiatria. Pensavo di fare lo sciamano. Vivere di libri era difficile, ma è stata una grande esperienza. Ho capito il dolore umano».
La storia del Portogallo è così splendida?
«No. Ci sono pagine di sofferenza e orrore, come il colonialismo, la guerra, la dittatura e la consegna del silenzio che ha coinvolto anche me».
Ha pensato di fuggire, di andare in esilio?
«Sì, ma non ho avuto il coraggio, perché la dittatura sembrava eterna e avevo paura di non tornare mai più».
Dove sarebbe andato se fosse scappato?
«Sicuramente in un Paese latino. In Spagna e Italia non mi sento mai uno straniero. Siamo la stessa cosa, abbiamo le stesse preoccupazioni, lo stesso modo di vedere le cose. Una cosa però oggi ci distingue».
La politica?
«Voi avete questa recente passione per l’estrema destra e non capisco perché».
Guardando l’Europa, l’anomalia pare essere il Portogallo: non c’è nessun partito di estrema destra.
«Un motivo esiste: noi la dittatura l’abbiamo avuta fino al 1974 e nessuno può dimenticare quegli orrori, i campi di concentramento, i prigionieri politici».
Le piacciono gli scrittori italiani?
«Li vivo come fratelli, non come stranieri. A 8 anni ho letto il Libro Cuore di De Amicis, mi ha avvicinato alla scrittura. A 11 anni mio padre mi regalò Kaputt, di Curzio Malaparte, non è il mio modo di scrivere, ma lo sentivo vicino, tanto che credevo fosse portoghese».
Ne ha conosciuti?
«Molti. Oltre ad Antonio Tabucchi, che viveva qui a Lisbona, ho amato moltissimo Italo Calvino, era una persona meravigliosa che si spendeva per gli altri. La notizia della sua morte è stato un dolore grande. Apprezzo molto Claudio Magris. Ma non ci sono solo gli scrittori».
Il cinema?
«La mia opera non sarebbe la stessa se non avessi conosciuto Fellini e il suo perenne viaggio tra cosciente e incosciente. Ho un’ammirazione sconfinata per Marcello Mastroianni, lo conobbi in Portogallo mentre girava Sostiene Pereira, era già malato, ma conservava un dolcezza e un’intelligenza straordinaria».