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 2019  marzo 23 Sabato calendario

Intervista a Lucia Poli

Dottoresse, professoresse e... animalesse. Per Lucia Poli l’universo è femmina e colora anche sulla scena la realtà con tutte le sfumature del rosa, ma con intelligenza e senza faziosità. L’attrice fiorentina, 79 anni, ripropone sul palcoscenico di quel piccolo gioiello ottocentesco che si chiama Teatro Gerolamo, dietro al duomo di Milano (stasera ore 21 e domani alle 16) il recital Animalesse. Storie di animali in prosa, in poesia, in musica, che lei stessa aveva imbastito, tre anni fa, apposta per una rassegna teatrale al femminile, “Una stanza tutta per lei”, al Teatro Due di Roma, nel complesso monumentale della basilica di Sant’Andrea delle Fratte, vicino a piazza di Spagna. Non uno spettacolo di tournée, quindi, ma una “chicca” da gustare solo nei luoghi dell’anima, una piéce che riprende in parole e musica invenzioni letterarie di Aldo Palazzeschi, Leonora Carrington, Patricia Highsmith e Stefano Benni, in altrettanti “quadretti” confezionati e raccontati da Lucia Poli accompagnata dalle note dell’organetto della musicista siculo-umbra Rita Tumminia e dalle immagini illustrate dell’artista e scenografo Giuseppe Ragazzini, surreali, grottesche, ironiche, naïf, come il contesto a cui si riferiscono.
È una Poli che affabula, quella diAnimalesse, col corpo e la voce flessuosi, tra sussurri e fragori, mosse e movimenti a modo che ricordano il fratello Paolo, non foss’altro per la somiglianza fisica: «Siamo proprio uguali, ci scambiamo anche i maglioni», diceva di lei l’attore e regista scomparso tre anni fa. Ma Lucia mostra in scena una propria originalità trasformandosi di volta in volta con funambolica eleganza e sottile ironia, in gallina, gatta, scarafaggessa, topessa e persino in iena (il personaggio de La debuttante, nell’onirico racconto della Carrington). «È uno spettacolo giocoso, fantasioso, dove gli animali coniugati al femminile parlano, hanno una loro psicologia, una visione del mondo, una morale, come nelle favole classiche, sono teneri, aggressivi, furbi» commenta l’attrice. Ma non ci sono maschere né travestimenti perché tutto si gioca sull’essenziale: il corpo, la voce, la faccia. Sarcasmo e lievità.
In Lucia Poli il teatro si mescola sempre con la letteratura. Ricordiamo Le sorelle Materassi ma anche l’omaggio a Dorothy Parker.
«Sì. Qui si percorre invece tutto il Novecento letterario affrontando generi come il surreale, il thriller, il noir, il grottesco. Niente gag, solo immagini poetiche dove la parola si affianca all’evocazione della musica e dei disegni. Il mio amore per la narrativa e la poesia deriva, come è stato per Paolo, dai comuni studi umanistici: sin dai tempi dell’università questa passione non mi ha mai abbandonato».
Infatti, anche la carriera teatrale di suo fratello è stata segnata da temi e autori letterari. Penso alle sue deliziose rivisitazioni deiSillabari di Parise e degli Aquiloni del Pascoli... Lui laureato in letteratura francese, lei in filosofia...
«Ero legatissima a mio fratello. Da piccoli leggevamo insieme romanzi e racconti presi dalla libreria di casa... Sul palcoscenico ho debuttato con lui (inFemminilità, nel 1972, ndr), abbiamofatto quattro spettacoli insieme.... Paolo il più grande e io la più piccola di cinque fratelli, orfani di padre con unamamma maestra elementaremontessoriana. Con Paolo avevo un rapporto davvero speciale».
Le manca?
«Molto. Parlavamo sempre del nostro lavoro, ci confrontavamo senza remore.Tra noi ci si criticava. Ci dicevamo soprattutto ciò che non andava nei nostri spettacoli. Ci soffermavamo su quello che ci sembrava “cattivo” perché il buono, quando c’è, il pubblico se ne accorge. Non ci è mai piaciuta la superficialità e nemmeno chi dice sempre “è tutto ok”. Perché nulla è perfetto. E quindi ci criticavamo, un’abitudine un po’ toscana».
I fratelli Poli, teatro alla “fiorentina”?
«È un carattere che viene sempre fuori. Un modo autoironico di fare teatro, pieno di arguzie e sberleffi».
Lei ha cominciato a Roma, negli anni ’70, in un “teatro off”, con un gruppo di toscanacci. C’erano Roberto Benigni e Carlo Monni...
«Scoprii, in quel teatrino ricavato in uno scantinato, il gusto della provocazione. Era l’avanguardia, si viveva molto in comunità: si discuteva, si mangiava insieme. Non mancavano tensioni e gelosie dovute alla competitivà tra attori ma c’era sempre solidarietà tra noi».
E oggi come è il teatro?
«Rispecchia la società. C’è stato il riflusso. Anche i teatranti sono stati risucchiati nel proprio individualismo. E ne risentono le produzioni. Un fatto che non fa bene alla cultura del nostro Paese. Esistono senz’altro delle sacche di eccellenza, ma rimangono lì, chiuse, non si allargano agli altri, come dovrebbe essere. Domina l’ignoranza. Roberto Lerici diceva che “il teatro non è in crisi ma è il teatro che racconta la crisi”. Racconta ciò che accade nella società. E oggi balbetta, annaspa e cerca di salvarsi dentro le nicchie... Invece il teatro deve parlare a tutti».
Suo fratello Paolo diceva che dentro di sé si sentiva un burattino, espressione usata in senso negativo, per dire di una persona manovrata da altri...
«Ma lui era un giocherellone. Amava, come amo io, Pinocchio di Collodi. Solo che, mentre il burattino di legno alla fine della storia dice “finalmente sono diventato un bambino”, per Paolo era il contrario: “ho cominciato come un bambino obbediente e mi sono trasformato in un burattino disubbidiente”. Lui era così, sempre meno reale e sempre più surreale. Ma aveva un suo stile. Camminava a un metro d’altezza, volava con la fantasia, sempre meno corpo reale e sempre più burattino dispettoso. Un genio».
E lei, com’é?
«Meno aerea, meno volatile. Io, come donna, sto coi piedi per terra».