Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  marzo 23 Sabato calendario

I cento anni del fascismo

Cento di questi anni: tanto è durata sinora la coda del fascismo eterno che gli italiani non hanno ancora finito di scaraventarsi addosso l’un l’altro. Un secolo esatto ci separa dal 23 marzo del 1919, quando Benito Mussolini fondò il suo partito in piazza San Sepolcro a Milano, esattamente nell’intersezione tra il cardo e il decumano dell’antica città romana che dopo molti decenni avrebbe preteso il primato morale della nazione. Se siamo ancora qui, a parlarne e scriverne, non è soltanto perché andiamo matti per gli anniversari a cifra tonda. È che la nostra memoria si fa sempre meno selettiva e sbiadisce nell’indistinto, sicché oggi torna utile rivangare nelle pozzanghere del Novecento per trovarvi il parallelo definitivo con la realtà presente e le presunte reincarnazioni di quell’epoca. Un giochino azzardato in varie circostanze dagli altrettanto eterni cantori della resistenza, spesso devoti al “fascismo dell’antifascismo” di pasoliniana memoria. E così, dal “fanfascismo” degli anni Settanta al populismo contemporaneo passando per il craxismo degli Ottanta e il berlusconismo dei Novanta, insistiamo a non capirci o a non volerci intendere sui fondamentali.

GIUDIZIO LIQUIDATORIO
Per l’accademia e per gli annali della Repubblica il fascismo è morto e sepolto e storicizzato, come disse nientemeno che Silvio Berlusconi l’anno scorso in un lampo di lucidità preelettorale. Eppure, mentre i trapassati annuiscono invano dall’oltretomba, il catalogo dei viventi insiste nel giudizio liquidatorio e nell’allarme sul nuovo regime in vista, oppure bascula tra la damnatio memoriae (il lauraboldrinismo che voleva rimuovere gli obelischi del duce, per dirne una) e l’imitazione grottesca delle pose mussoliniane ancora in voga in certe residuali catacombe nere. Esempio banale. Nel 1995, dopo aver professato per una vita la dottrina missina del «non rinnegare e non restaurare», Gianfranco Fini s’illuse di potersi sedere alla tavola dei giusti espellendo il fascismo, dall’oggi al domani, come un calcolo renale (copyright Marcello Veneziani); i commensali finsero di credergli. A distanza di oltre un ventennio, un liberale berlusconiano come Antonio Tajani si fa spellare vivo per aver ammesso che il fascismo qualcosa di buono deve pur averlo fatto: «Fino a quando non ha dichiarato guerra al mondo intero seguendo Hitler, fino a quando non s’è fatto promotore delle leggi razziali, a parte la vicenda drammatica di Matteotti, ha fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro Paese, poi le bonifiche…». Dal “male assoluto” al “bene relativo”, da Fini a Tajani, il passo delle oche può essere breve ma in mezzo c’è un mondo di equivoci e dismisure. La verità, posto che ve ne sia una, potrebbe annidarsi nelle parole di Fabrizio De André: «Ma c’è amore un po’ per tutti / e tutti quanti hanno un amore / sulla cattiva strada». Sostituite “amore” con “fascismo” e troverete l’autobiografia della nazione italiana, non necessariamente nell’accezione di Piero Gobetti che la stigmatizzò come illiberale nell’intimo delle sue fibre. Se il fascismo sta ancora qui, ora, di fronte a noi, è perché fu totalitario nel senso della totalità onnicomprensiva del meglio e del peggio in circolazione. Vado a spanne: il patriottismo romanocentrico risorgimentale, il sindacalismo rivoluzionario, il massimalismo interventista dei socialisti mussoliniani prima della Grande Guerra, il reducismo post bellico, il dannunzianesimo fiumano libertario e sovietizzante, il movimentismo della prima ora (sansepolcrismo), la benedizione liberale di Benedetto Croce fino al 1925, l’esiziale clericofascismo di rito lateranense (punto di non ritorno), il mussolinismo marmoreo dai primi anni Trenta, il successivo colonialismo in linea con quello dello Stato liberale e quello demo-europeo, l’anarcofascismo di Berto Ricci (quello della seconda ondata), il razzismo all’italiana, il bellicismo cialtronesco e germanofilo, la guerra, il 25 luglio, Badoglio e Salò e piazzale Loreto con il crepuscolo sanguinario degli idoli e dei feticci. Più tutto ciò che è stato appena omesso o dimenticato, tipo le fascistissime poesie di Pietro Ingrao e i perfetti saluti romani di Eugenio Scalfari o i matrimoni in stile coloniale alla Indro Montanelli.

LA FORMULA DI ECO
Una totalità, appunto, in cui non c’è salvacondotto alcuno per gli sconfitti né un paradiso dove i vincitori possano finire “con tutte le scarpe”, per dirla con il fascista Luigi Pirandello. Quando Umberto Eco coniò la formula dell’Urfascismo, il fascismo perenne che come un archetipo platonico precede ogni sua forma storica e le sopravvive, eravamo nel 1995 e Matteo Salvini aveva appena smesso di frequentare Il pranzo è servito” di Davide Mengacci su Rete4. Oggi, con il duce dei leghisti tricolori in sella alla nazione, Eco persisterebbe come altri nell’affibbiare l’infame etichetta agli avversari del momento piuttosto che scavare nella genealogia domestica. Invece Giampiero Mughini, intellettuale antifascista con molti fiocchi, ha appena fatto rieditare il suo più bel libro A via della Mercede c’era un razzista (dedicato a Leonardo Sciascia, ora per Marsilio ma nel 1991 Rizzoli) in cui ritrae l’interprete del più miserabile fra i razzismi, quello biologico, anzi bovino: quel Telesio Interlandi che fu, sì, maestro di Giorgio Almirante alla Difesa della Razza ma al tempo stesso con il suo Quadrivio fornì alimento e protezione e copertura ideologica per il fiore dell’intellettualità comunista e liberale del Dopoguerra: Dino Terra, Umberto Barbaro, Alberto Moravia, Eugenio Montale, Vitaliano Brancati… Con queste premesse, davvero ci interroghiamo sul coefficiente di pericolo insito nelle cinghiemattanze canore di CasaPound? E proprio a causa della comune labilità mnemonica, quando non della mala fede, chi si ricorda più che prima del 4 marzo i fascisti del terzo millennio venivano indicati dai media come un partito lì lì per dare la scalata alla democrazia? Non hanno toccato l’un per cento nelle urne. E tuttavia c’è Salvini che per giunta s’è messo in società con l’algoritmo della Casaleggio e la democrazia diretta dei Cinque stelle. Roba forte, che autorizza paragoni spericolati e incendia perfino la buona fede di mansueti intellettuali altrimenti temprati nello scetticismo metodico. Ma questo è il “fascismo percepito”: nella migliore delle ipotesi una variante dell’Urfascismo per l’èra del riscaldamento globale. E al riguardo, un secolo prima di Putin e Visegrad, aveva già colpito nel segno Oswald Spengler con il suo Tramonto dell’Occidente (1918) in cui fu deposto il vaticinio sul nuovo cesarismo a venire: «La potenza informe nelle mani di singoli individui che controllano dispoticamente le forze e gli uomini di questo mondo interiormente dissolto e crepuscolare», come chiosò il suo traduttore Julius Evola.

L’EPOCA DEI MATTEI
Da Cesare a Salvini il passo stavolta è enorme. Prima c’è un’infinità di Cesari assieme al Veltro dantesco, a Cola di Rienzo, Carlo Emanuele I, Napoleone e via così nella voluttà di scendere sino ai tempi ultimi del popolo che azzanna le élite decadute. Sempre con l’ombra di Mussolini e dei suoi antifascisti del giorno dopo, del democristianfascista Mario Scelba a scrivere leggi antifascistissime dal Viminale nel 1947-53. Poi la guerra fredda con la Balena bianca scudocrociata e il rosso il Pci moscovita: perni di un arco costituzionale impermeabile ai vinti. Quindi Craxi disegnato da Forattini su Repubblica con indosso gli stivaloni lucidi e Berlusconi a ribaltare gli schemi maltrattando il sonno dei comunisti fuoriusciti dalle macerie del Muro di Berlino nella veste dei sinceri democratici. Oggi siamo nell’epoca dei Mattei, Renzi e Salvini: un principato caduto a sinistra e un altro che sorge nel consueto non-luogo della topografia politica emerso dalla disintegrazione delle vecchie certezze. A entrambi, figli illegittimi di una prassi cesaristica senza dottrina, tutt’al più si addicono i pensosi richiami che Giuseppe Bottai disseminò nelle sue memorie, Vent’anni e un giorno, splendidamente curate da Giordano Bruno Guerri per Bur: «C’era già in lui, per così dire, qualche cosa di “mussoliniano”… L’esercizio rappresentativo del potere può avere portato ciò a una perfezione studiata, voluta, all’arte, all’artifizio. Ed è allora che il mussolinismo, inteso nella sua accezione più elementare, diviene una seconda natura, ma è dalla sua vera natura che deriva di prima mano. La persona, insomma, era già un personaggio». Facebook prima di Facebook. Sto dando anch’io del fascista a Salvini? O non piuttosto del salviniano che se si ferma è perduto? E non più di quanto Renzi fu renziano, Berlusconi berlusconiano e Craxi craxiano. Da Platone in poi si sa che in democrazia la plebe ha bisogno dell’uomo forte di cui innamorarsi e disfarsi, come nell’andare e riandare d’un moto ondoso attratto inesorabilmente dallo scoglio che finirà per travolgere. Bottai l’aveva presentito in corso d’opera e, prima di scivolare nella parte del vile, offrì un antidoto: «Considerando le difficoltà obbiettive d’un opposizione ad agire efficacemente…» escluso «l’eterno, monotono, superato riferimento ai concetti di destra e sinistra, invocavo un’opposizione per linee interne: creiamo a noi stessi la nostra opposizione». Non è più il fascismo in sé a toccare nel profondo ogni italiano, è l’Urfascismo in me. Cento di questi anni (e un giorno).