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 2019  marzo 23 Sabato calendario

Biografia di Fanny Ardant

Fanny Ardant (Fanny Marguerite Judith A.). Saumur (Francia) 22 marzo 1949. Attrice. Regista. «Il “no” mi è sempre venuto più facile. Il mio lusso è sempre stato scegliere: dire “sì” raramente, solo a ciò che mi convinceva» • «Descrive i genitori come persone piuttosto speciali. Forse il loro screzio più importante è stato per il suo nome quando è nata. Il padre voleva chiamarla Jérusalem, la madre si è opposta. “Peccato: non mi sarebbe dispiaciuto chiamarmi Gerusalemme”» (Sandra Petrignani) • «Mio padre era ufficiale di cavalleria, mia madre amava moltissimo mio padre. Siamo tre fratelli: io sono la più giovane. Della mia infanzia ricordo protezione, belle cose, odori e soprattutto la casa dei nonni vicino a Fontainebleau. Non vedevo nessuno, leggevo sempre, la domenica andavo a messa e la nonna invitava il prete il pomeriggio perché eravamo molto cattolici. Amavo quella casa come una persona. […] Ho avuto un’infanzia felice, protetta, incantata. Leggevo di tutto, anche Chateaubriand. Ho vissuto con i miei genitori prima in Svezia, poi in Algeria, poi, tra gli otto e i diciassette anni, a Montecarlo. Mio padre era governatore del Palazzo di Monaco» (ad Alain Elkann). «Ha trascorso infanzia e adolescenza a Monaco: suo padre era tra i consiglieri più ascoltati di Ranieri. “Grace l’ho conosciuta bene. Era così bella, molto bionda, dolce. Mio padre era incorruttibile: grande indipendenza di spirito, lo stesso con un principe o la signora che vende le cartoline. E aveva tanto umorismo: ho sempre voluto assomigliargli”. Una famiglia felice e unita, lei con un fondo di malinconia: “Se vedevo la luce tra gli alberi, pensavo: questo momento non ritornerà mai più”» (Leonardo Martinelli). «Ero ribelle. Dicevo di no a tutto. Per me è sempre stato importante dire di no a tutto. Lo facevo d’istinto, senza pensarci. Non volevo essere una ragazza che piace. Andai a Parigi a fare l’università. Volevo studiare teatro, ma i miei genitori volevano che prima mi laureassi. Amavo recitare, mi piaceva la poesia. Mi piaceva sentire il suono delle parole. Quando si ama qualcosa, bisogna dirlo a voce alta. A volte, nella notte, svegliavo mia sorella e le dicevo: “Ascolta!”. […] Scelsi la facoltà universitaria che durava di meno: Scienze politiche. Dopo tre anni ero libera, e andai a Londra da sola. Stavo in un appartamento lussuoso con due amiche inglesi e facevo qualsiasi lavoro per mantenermi. Ero povera tra gente ricca. Fu un anno di follia, in cui conobbi molte persone, mentre prima ero stata molto sola. A Londra conobbi per caso un uomo in un bar, che mi disse: “C’è chi fa e c’è chi dice”. Mi bastò quello per capire che era giunta l’ora di fare. Tornai a Parigi, mi iscrissi a un corso d’arte drammatica e decisi che quella sarebbe stata la mia strada: recitare. Cominciai così a ricevere delle proposte di lavoro. […] Cominciai alla televisione, con una storia a puntate». «Ardant recitava nello sceneggiato televisivo Les Dames de la côte di Nina Companéez. François Truffaut la vide e se ne innamorò a prima vista, offrendole la parte della misteriosa Signora della porta accanto e poi Finalmente domenica!» (Anaïs Ginori). La signora della porta accanto fu per lei una sorta di folgorazione: «Mi ricordo il giorno in cui François, cioè François Truffaut, mi ha mandato il riassunto della sceneggiatura. Mi sono sdraiata sul letto, e quando ho finito di leggere camminavo mezzo metro sopra terra. A quei tempi abitavo con mio zio, e gli ho detto “Vieni, usciamo, andiamo a bere”, e lui: “Ma sei pazza, sono le quattro del pomeriggio”. Ma io ero fuori di me, avevo capito che era un grande film: c’era tutto quello in cui credevo nella vita, che si può morire per amore. Abbiamo girato in sei settimane, velocissimi, […] con François che scriveva i dialoghi di notte. Voleva raccontare la speranza, il dolore, l’illusione, dietro a un fatto di cronaca» (a Stefano Montefiori). Nacque, così, tra la Ardant e Truffaut (1932-1984) «un sodalizio, anche sentimentale, che favorì l’esplodere della sua popolarità di attrice: “Truffaut è stato il primo regista a darmi veramente fiducia. Io venivo dal teatro, e allora il mondo dello spettacolo era diviso in compartimenti stagni: c’era chi lavorava esclusivamente per il teatro, chi per la tv, chi per il cinema. Truffaut era veramente appassionato di quello che faceva, dunque per me il cinema è diventato subito una promessa di felicità”. Dopo Truffaut fu tutto un crescendo di collaborazioni internazionali» (Enzo Garofalo). «Segue Un amore di Swann (1983) di V. Schlöndorff, da Proust, e Benvenuta (1983) di A. Delvaux, raffinato dramma della passione tra una pianista e un magistrato, interpretato assieme a V. Gassman. In Finalmente domenica! (1983), ultimo film di Truffaut, è la segretaria innamorata di un agente immobiliare accusato di omicidio. […] Collabora poi con A. Resnais, per il quale interpreta La vita è un romanzo (1983), L’amour à mort (1984) e Melò (1986), con A.M. Tatò per Desiderio (1984), in cui è una giornalista parigina sulle tracce delle sue origini pugliesi, e con un atipico C. Costa-Gavras in Consiglio di famiglia (1986), commedia leggera di satira borghese. Nello stesso anno è nel ricchissimo cast (V. Gassman, S. Sandrelli, O. Piccolo, A. Occhipinti, M. Dapporto) di La famiglia di E. Scola, ritratto di una famiglia romana dal 1906 al 1986 sullo sfondo della storia, tutto girato in interni. Seguono Paura e amore (1988) di M. von Trotta, ispirato liberamente a Tre sorelle di Cechov, Australia (1989) di J.-J. Andrien, L’ultima luna (1990) di P. Beuchot e il thriller psicanalitico Occhi nel buio (1991) di M. Peploe. Impersona l’avida consorte di Il colonnello Chabert (1994) di Y. Angelo, da Balzac, e partecipa ad Al di là delle nuvole (1995) di M. Antonioni e W. Wenders. Vince il César per la brillante interpretazione in Di giorno e di notte (1996) di G. Aghion, commedia degli equivoci in cui è la finta moglie di un manager omosessuale, e, nello stesso anno, è la perfida M.me de Blayac in Ridicule, di P. Leconte, accurata ricostruzione delle ambiguità della Francia illuminista, nominato all’Oscar. Nel 1998 è di nuovo diretta da Scola in La cena e da S. Kapur in Elizabeth, cupo e sanguinoso dramma storico. Fra i suoi ultimi lavori: Sin noticias de Dios (Nessuna notizia di Dio, 2001) di A. Díaz Yanes, Otto donne e un mistero (2002) di F. Ozon, Callas Forever (2002) di F. Zeffirelli, L’odore del sangue (2004) di M. Martone e L’ora di punta (2007) di V. Marra» (Gianni Canova). Negli ultimi anni è apparsa, tra l’altro, ne Il divo (2008) e ne La grande bellezza (2013) di Paolo Sorrentino, e, da ultimo, in Lola Pater di Nadir Moknèche (2017), in cui ha interpretato un padre transessuale, e in Ma mère est folle di Diane Kurys (2018), nel ruolo di una madre eccentrica. Nel 2009 ha inoltre debuttato come regista con Cendres et sang («Una donna rumena, immigrata in Francia, perde il marito assassinato in una faida familiare e da sola cresce tre figli. Il film racconta il suo doloroso ritorno al villaggio natale, 18 anni dopo la tragedia. Una storia di violenza ma anche di perdono: a volte è più forte di tutte le condanne»), esperienza poi ripetuta nel 2013 con Cadences obstinées («Racconta un amore che nasce e muore in quattro mesi sullo sfondo della ristrutturazione di un albergo. Più i lavori progrediscono, più l’amore si spegne. Cadences obstinées è un apologo su cosa si possa salvare e cosa possa rinascere dopo la fine di una passione. Ed è anche un film sulla rinuncia. […] Volevo capire qual è il posto che l’amore lascia libero per l’arte. Se l’amore è folle, non c’è spazio per altro»; «L’idea nasce dalla frase “aspettare l’amore è già amore” di Marguerite Duras, che descrive bene lo spazio che esiste tra l’ideale e la realtà”») e nel 2017 con Le divan de Staline, ispirato all’omonimo romanzo di Jean-Daniel Baltassat («Ho voluto raccontare una metafora sul potere che corrompe tutti, chi lo esercita e chi lo subisce, e ho pensato che il libro di Baltassat rappresentasse bene questa idea. Per il ruolo di Stalin ho voluto Gérard Depardieu. […] A Gérard ho chiesto di dare vita a quell’insieme di dolcezza e malvagità che ho ritrovato nello Stalin di Baltassat, e penso ci sia riuscito benissimo»). «Facendo molto teatro, ho avuto spesso pomeriggi liberi e ho iniziato a riempirli scrivendo delle storie. Un giorno un produttore ha creduto in una di quelle storie e mi ha proposto di farne un film, affidandomi la regia. Poi ne ho fatti altri due, ma non penso di abbandonare il mio lavoro di attrice: lo amo troppo, adoro concentrarmi totalmente sul personaggio da interpretare. Nei film che dirigo preferisco quindi non recitare, perché la lavorazione richiede un’attenzione continua: ho una responsabilità verso gli altri attori, e questo non mi consentirebbe di dedicarmi pienamente alla mia parte. Dunque separo le due cose. Certamente tornerò a dirigere, ma è diventato sempre più difficile fare film particolari, perché io non faccio parte dell’industria… Mi considero un’artigiana» • Tuttora attiva anche in palcoscenico. «Sono nata in teatro, provengo da lì: il cinema è arrivato molto dopo. Ricordo ancora perfettamente la sera del mio debutto nel 1974 con il Polyeucte di Corneille per la regia di Dominique Leverd. Ho avuto tutta la vita un rapporto d’amore e odio. Il teatro è cattivo, ti prosciuga, ti chiede tutto. Un po’ come succede con gli uomini. Dopo una grande storia, ne esci svuotata, e allora giuri a te stessa che non ci cascherai più, che è sicuramente l’ultima volta… Invece dopo un po’ ti innamori di nuovo e ricominci. Per me il teatro è una malattia: non sono mai riuscita a vaccinarmi» (a Grazia Lissi). «Il cinema è una macchina complessa. Corre, non ti aspetta, e difficilmente ti offre una seconda occasione. Per questo amo tanto il teatro. Il tempo delle prove. Il limbo in cui tutto è possibile. In teatro, che ti elogino o ti stronchino, ogni sera inizi quasi da zero. Hai un’altra chance» • Nubile, tre figlie da tre uomini diversi: Lumir (1975) dall’attore Dominique Leverd, Josephine (1983) dal regista François Truffaut e Baladine (1990) dal produttore italiano Fabio Conversi. «Non sono mai stata un’amica per loro. La madre è un albero: sono lì, ferma, a proteggere, ascoltare; il padre invece è il sole. Ho accettato l’idea della responsabilità, a cui prima non avevo mai pensato». «Potrei difendere la mia famiglia contro la legge, contro tutto. Preferisco sbagliare per troppo amore che per troppo poco» • «Non ho mai desiderato il matrimonio. Eppure, oggi, quando vedo una sposa vestita di bianco, sento una sottile malinconia: come un paese in cui non andrò mai» (a Irene Maria Scalise). «La verità è che, quando si parla di sentimenti, c’è molta confusione e non si fa la giusta differenza tra amore e passione, che invece sono all’opposto. L’amore è abnegazione e offerta ad abbandonarsi. Amare vuol dire donare e, dopo aver dato, non chiedere qualche cosa in cambio. La passione è qualcosa che finché non è appagata spinge a possedere. Nella passione c’è vittoria ma anche, come spiega l’etimologia della parola, sofferenza». «Se si considera l’amore come dono, non ci sono più compromessi, ma armonia. Quando si decide di amare per tutta la vita si raggiunge la pace. Io ho adorato la moglie di Dominique Strauss-Kahn quando ha deciso di sostenere il marito comunque. Se tu ami, non ha importanza essere traditi o ridicolizzati. L’orgoglio e la vanità non possono esistere nell’amore». «Vale sempre la pena avere amato. Anche quando poi non ha funzionato» • «Amo gli uomini, non credo alla parità. Non ho aspettato il femminismo per emanciparmi. Sono nata libera. Ho sempre ammirato gli uomini della mia famiglia, poi quelli con cui ho vissuto. Impossibile per me escluderli o mettermi in una posizione di superiorità». «Detesto le leggi sulla parità: fossi a capo di un’impresa, assumerei solo personale di sesso maschile» (a Carla Bardelli). «Di lei non abbiamo sentito nessuna parola finora a proposito del movimento #MeToo… “E non la sentirete. Detesto fare parte di movimenti. Non credo nella loro forza: spesso si rivelano controproducenti. Credo nella cultura e nella sua capacità persuasiva”» (Andrea D’Addio) • «“A lungo ho rimpianto di non aver fatto politica. Ora non più: ho un’idea troppo romantica della militanza. Per governare bisogna fare compromessi. Lo capisco, ma non voglio partecipare. Ho anche smesso di votare. Forse è puerile; non mi permetterei mai di consigliare ad altri di fare come me”. Le donne in politica? “È come al cinema. Non bisogna giudicare un attore per il suo sesso o per la sua estrazione sociale, così come in una sceneggiatura è riduttivo definire un personaggio ‘un borghese’ o ‘un proletario’. Ci può essere un borghese stupido o illuminato, e lo stesso vale per un proletario. Prima di tutto c’è la persona. Per questo non credo alla parità imposta in politica. Se ci sono tre uomini capaci e due donne che non lo sono, non vedo perché dovrebbero essere elette le donne”» (Ginori) • «Cosa la infastidisce di più? “Il perbenismo, il pensiero uniformato, il politicamente corretto. Medea, che ho interpretato tante volte, dice che la collera ha distrutto gli uomini. No, dico io: giova alla dialettica. Un mondo pacificato è l’anticamera della morte. Adoro i provocatori, come lo scrittore Houellebecq”» (Gloria Satta). «Sono sempre stata fuori dal branco: provo ammirazione per i marginali, per chi sceglie di stare dalla parte sbagliata. Opporsi, ma a cosa? Non importa. L’importante è rimanere uno spirito libero. So che abbiamo una vita sola. Non m’interessa ricevere medaglie, potere, essere accettata dalla gente perbene» • Per amore di provocazione, insipienza o semplice ignoranza, nell’agosto 2007 pronunciò una serie di clamorose inanità: «Ho sempre considerato il fenomeno Brigate rosse molto coinvolgente e passionale. Era un’epoca in cui si sceglieva un campo: c’era chi prendeva fuoco e decideva che poteva ammazzare e farsi ammazzare. Renato Curcio? Un eroe che ha combattuto per una scelta di libertà e che non si è arricchito come altri ex terroristi diventati uomini d’affari». In seguito alle polemiche con cui in Italia furono naturalmente accolte tali parole, l’attrice chiese scusa agli italiani e in particolare ai parenti delle vittime, non risultando però particolarmente convincente • «La menzogna è qualcosa di nobile». «Un giorno ho detto a un giornalista che ero io la bimba nella carrozzina della scalinata del film La corazzata Potëmkin. E lui l’ha scritto: ci ha creduto. Posso mentire sui fatti, non sulle idee» (Martinelli) • «A me piace piangere ascoltando dei testi d’amore che prendono il cuore e te lo strappano. Sono malinconica, sono sentimentale, sono drammatica. Ho pianto, piango con Mina, con Luigi Tenco, con Celentano. E mi piacciono sia le canzoni napoletane, sia l’opera lirica, sia la musica classica. Se devo dire un genere meno scontato, nella mia personale classifica, metto Serge Gainsbourg al primo posto, in cima: lui è il genio indiscusso. A scendere, inserisco pure Johnny Hallyday» (a Gabriella Greison) • «Ci sono due argomenti di cui è meglio non parlare: le tasse e l’età. Si perde in dignità a lamentarsene» • «Enigmatica e istintiva, romantica e signorile, Fanny Ardant […] è molto bella, soprattutto tenendo conto della sua età. È brava. È una star europea, cosmopolita. È beneducata, diversamente dalla maggior parte delle attrici. È elegantissima. Spesso pare fredda, lontana, dominata da una severità e da uno stile alto-borghese che non sono fatti per ispirare simpatia né per scaldare il cuore: ma questa apparenza contrasta con un ardore, con una sensualità, con una capacità di sedurre che diventano, proprio nel contrasto (rimangono nel tempo), irresistibili» (Lietta Tornabuoni) • «“Mai pensato di essere bella”. […] L’autostima, quella estetica compresa, è davvero una faccenda fragile e ben complicata se pure lei vacilla, con quell’occhio profondo non segnato dall’età, il viso ben disegnato senza invasività chirurgica, il corpo intatto senza ginnastica nonostante tre gravidanze, un forte carisma personale che va al di là dell’indubbio fascino» (Maria Luisa Agnese) • «È l’icona della femme fatale. Quando si pensa a un’attrice francese, vengono in mente Catherine Deneuve e Fanny Ardant. La bionda e la bruna: entrambe hanno con il nostro Paese legami famigliari, cinematografici. […] Sono ormai trent’anni che va e viene tra Parigi e Roma, è la più italiana delle attrici francesi. “Ho incominciato a fantasticare sul vostro Paese da ragazza, attraverso la poesia e la letteratura. E poi quando sono arrivata la prima volta a Roma sono stata rapita. L’odore, i rumori, le voci delle persone che si chiamavano nelle piazze, le giornate in Vespa. Incontrare Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni era come avvicinare dei principi. Facevano lo sforzo di parlare francese, con quella ‘r’ arrotata così seducente. Ero estasiata. Avevano quell’intelligenza ironica. I francesi si prendono così sul serio, sono cartesiani”» (Ginori). «Non capisco chi va alle Maldive. Che senso ha? C’è già l’Italia, che è il posto più bello del mondo, ed è così vicino. Se penso a una vacanza, penso a Roma, a Napoli…». «Ho lavorato con persone che hanno fatto il cinema italiano, perché erano grandi persone. Se penso a Vittorio Gassman, penso a quanto sono stata fortunata: lui aveva un amore spregiudicato per i legami, per i fili sottili che legavano storie, amicizie, personaggi. Scola, invece, per me è stato un grande maestro, anche di vita. Antonioni, beh, era di un’intelligenza rara e delicata. Mastroianni, infine, aveva tale eleganza e voglia di vivere che il tempo con lui pareva fermarsi» • «Quali doti contano di più per un’attrice? “Coraggio e disponibilità. Si deve essere abbastanza libere per entrare nell’universo di un regista senza pregiudizi, ma lasciandosi guidare dall’istinto. Non serve a niente avere certezze: le certezze volano. Bisogna buttarsi. […] Io vedo la mia vita come quella di una funambola che forse cadrà, forse no, che rischia di farsi molto male, forse no. La paura impedisce di godersi il momento. Non bisogna fare strategie, ma lasciarsi trasportare dal fiume, perché il fiume è più ricco di noi. Il cinema, in questo senso, è un po’ un fiume”. Come sceglie i progetti a cui partecipare? “Ho lavorato con grandi maestri e con debuttanti. Mi fido dell’istinto. Se una sceneggiatura arriva per posta, la leggo in cucina mentre bevo dell’acqua. E quando la caraffa è vuota decido se è sì o no”. […] C’è un film di cui va più fiera? “Callas Forever di Franco Zeffirelli. Per me, un modello per i film biografici. Non si racconta se ha sposato un miliardario, se prima era magra e poi non più, ma dell’ossessione per l’assoluto, di ciò che si è disposti a sacrificare in nome della propria idea di arte. Dopo aver visto un film del genere, una casalinga potrebbe voler tornare a casa e provare a fare il migliore pane al mondo. È un film che ispira”. […] Dovessero fare un giorno un film su Fanny Ardant, che cosa vi si racconterebbe? “Del momento della rottura e della rinascita. Di come ogni cicatrice mi abbia insegnato a cercare di gioire di ogni attimo. Dei miei film sbagliati, ma di cui sono orgogliosa, perché mentre li giravo ero felice. E tanto basta”» (D’Addio). «Non ho necessità di conoscere a fondo un attore per riuscire a recitare con lui: penso sia una cosa immediata, fatta di sguardi. Non amo gli attori eccessivamente seriosi, amo quelli più spavaldi. Il mio sogno sarebbe di recitare con Sean Penn o Jack Nicholson, che non sai mai come reagiranno. Voglio essere colta di sorpresa» (a Chiara Spagnoli Gabardi). «Si è mai chiesta perché recita spesso in ruoli drammatici? “Forse perché ho una visione tragica della vita, anche se mi piace la gente, parlare, appassionarmi di tanti argomenti, litigare, fare pace… Qualche commedia mi è capitata, ma l’ho sempre considerata come lo champagne: va bene, ma non sempre”» (Paola Gabrielli). «Non voglio recitare parti di donne della mia età gelose di donne più giovani. Non voglio passare la mia vita a ritrarre donne che odio. Per questo recito a teatro, e ogni tanto passo dietro la macchina da presa: perché la vita è molto più varia di quanto pensiamo» • «Se non avessi fatto la regista e l’attrice, ci sono due tipi di lavori che avrei potuto fare. Parrucchiera o coltivatrice di olive. Il primo per quando mi sento socievole, il secondo per quando mi sento molto asociale. Coltivare olive, poi, è più facile del produrre vino. Mi piacerebbe fare la parrucchiera in un paesino del Mediterraneo: non in una grande città come Parigi dove le donne sono cattive, ma in quei villaggi dove ti occupi sia di una giovane donna che si deve sposare che della moglie del mafioso». «“Io non ho mai saputo cosa fare. Ho sempre camminato nel buio, però ho sempre vissuto intensamente. Non saprò mai se ho fatto bene o no ad andare in una certa direzione, ma una cosa la so”. Quale? “Che una buona direzione, una direzione sicura non esiste. Non c’è un bene o un male, una ragione o un torto. C’è la vita. E decidere di non vivere pensando ad altro o perdendo tempo nel rancore è veramente un gran peccato”» (Malcom Pagani e Fabrizio Corallo). «Il disordine è la mia natura. Ho sempre fatto l’apologia del disordine. Dall’ordine nascono forse la bellezza, la simmetria, l’armonia; ma dal disordine nasce la vita. Ciascuno poi trova il suo equilibrio dove vuole e dove può. Il disordine è un grande oceano di correnti da cui non si può uscire. Ogni volta che mi hanno proposto l’ordine mi sono annoiata» • «“Il peggio che mi potrebbe accadere è voltarmi e accorgermi che non ho più i sogni di quando avevo quindici anni. Proverei una grande tristezza. È una scelta che si paga. A volte ti ritrovi da sola, a volte ti prendono per pazza”. È come la favola del lupo e del cane di La Fontaine, dice. Un lupo magrissimo e affamato che incontra in un prato un cane “grasso, tondo e bello”. Il mastino gli racconta che è accudito ogni sera, viene pettinato e lavato, ha cibo a volontà, e propone all’animale selvatico di abbandonare i boschi e la sua “vita infame, sempre in guerra”. Il lupo comincia a seguirlo, ma vede qualcosa. “Che roba è questa?”, chiede. “La catena alla quale mi legano ogni giorno”. Il lupo, anche se magro e sporco, scappa via. “È una favola del Seicento. In fondo, da secoli l’umanità si divide in due”, conclude Ardant. “Quando sei infelice, triste, dimentichi che è il prezzo da pagare perché, in un momento della vita, hai avuto il coraggio di andare in un’altra direzione. Eppure non ho dubbi. Sono un lupo”» (Ginori) .