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 2019  marzo 23 Sabato calendario

Biografia di Andrea Dovizioso

Andrea Dovizioso, nato a Forlimpopoli (allora in provincia di Forlì, oggi di Forlì-Cesena) il 23 marzo 1986 (33 anni). Pilota motociclistico. Attualmente, corridore della Ducati (MotoGP, dal 2013); già della Yamaha (MotoGP, 2012), della Honda (MotoGP, 2008-2011; classe 250, 2005-2007; classe 125, 2002-2004) e della Aprilia (classe 125, 2001). Campione del mondo della classe 125 nel 2004 (Honda). «Sul casco ho due cavalli: uno nero, simbolo di irrazionalità, e uno bianco, la razionalità. Io di solito vivo col bianco, ma per fare certe cose ci vuole il cavallo nero al momento giusto» • «Correre per la Ducati è come per un calciatore essere convocato in Nazionale: sente la responsabilità? “Enorme. È l’unico caso in cui viene prima la moto del pilota. Non è come per la Honda o la Yamaha, in cui i tifosi sostengono più l’atleta che la marca. Quello Ducati è un tifoso molto più difficile da gestire. È un ‘ducatista’”» (Alessia Cruciani). «Cos’è per me la Ducati? Casa, e non solo perché vivo a Forlì. Ducati è la moto italiana, montata all’italiana, con i problemi e le soluzioni all’italiana. Ci lavorano dei geni, ed è capace, così piccola, di lottare contro i mostri giapponesi» • «Se sono un pilota, la colpa è di papà Antonio, che è molto appassionato di motocross. Siciliano di Calascibetta, si è trasferito a Forlì all’età di quattro anni. Era convinto che sarei diventato campione del mondo ancora prima che nascessi» (a Paolo Ianieri). «Quando sono, nato il mio babbo correva con le moto da cross: praticamente sono nato in pista. Nei weekend andavamo a seguire le gare; ero sempre in mezzo alla terra. Per un bambino era un sogno. La passione è iniziata vedendo i salti, i traguardi, gli schizzi di fango» (a Manuela Croci). «A 3 anni papà Antonio, crossista per diletto, lo portava con sé sulla moto: Andrea davanti, la sorella Valentina dietro. Ma quella moto era ferma, e il piccolo Dovizioso voleva muoversi. Anche la sua Yamaha Ténéré elettrica non gli piaceva: era solo un giocattolo. Così, un giorno, quando aveva 3 anni e mezzo, prese la bici e fece una scommessa con il papà: “Se vado dritto senza le rotelle, mi compri una moto che fa rumore?”. Scommessa vinta. Poi Andrea ha cominciato ad andare forte. A 9 e 10 anni ha conquistato due tricolori minimoto, a 15 l’Europeo 125. […] Un ricordo della scuola? “I 5 e i 6 che prendevo”» (Giorgio Specchia). «Tutti dicono che sono un ingegnere mancato; in realtà, a scuola ero pessimo: pensavo solo alle moto. Facevo la “geometri” perché vicina a casa, ma mi sono fermato dopo la 1a. Però già a 7-8 anni riuscivo a fare la carburazione, i rapporti e la frizione della mia minimoto. Merito di papà». «Racconta di un’infanzia felice, ma non facile. “I miei genitori imbottivano e mettevano le cinghie ai divani. Non guadagnavano molto: spesso si doveva cambiare abitazione. Il periodo più bello, l’ho passato quando avevo 2 anni, in una casa di Panighina, sulla via Emilia, sotto Bertinoro. Mio padre aveva costruito accanto una piccola pista di motocross”. Poi la crisi del settore mobili, il fallimento di alcune aziende, i genitori che si separano. “Sono rimasto con Valentina e mia madre, costretta a un doppio lavoro per mantenerci, a vivere in un piccolo appartamento del centro. Ma andavo forte in moto: verso i 16 anni ho cominciato a provvedere io alla famiglia”» (Massimo Calandri). «“Da bambino mi dividevo tra minimoto, cross e calcio perché me la cavavo bene in tutte e tre le discipline. A 13 anni, però, ho dovuto scegliere quale sport portare avanti. A dire la verità, non è stato difficile: avevo già deciso senza rendermene conto. Ho sempre saputo che il mio futuro sarebbe stato in pista“. […] Qual era il tuo sogno da piccolo? “Correre in circuito: i miei idoli erano Kevin Schwantz, perché era spettacolare, e Mick Doohan, che vinceva tutto. Per me erano veri e propri miti nel senso che erano irraggiungibili: a inizio carriera, mai avrei pensato di competere nel motomondiale. Altra epoca rispetto a oggi”. Cioè? “Non avevamo tutte le opportunità di cui dispongono ora i giovanissimi, e avevamo mentalità e atteggiamento completamente diversi. Anche se vincevamo, non pensavamo a diventare professionisti: ci interessava tagliare il traguardo e basta; non sapevamo nulla di contratti e sponsor”» (Cristina Marinoni). «“La mia prima moto è stata una 125 da Gran premio, ed è stata un’esperienza traumatica”, ricorda il forlivese “Mi era stato chiesto di correre nel 2000 per il team di Fiorenzo Caponera perché ero il più veloce in minimoto. Ho provato questa Aprilia GP tre volte a Maggiore durante i test invernali prima della stagione 2000, e alla fine mi è stato detto che non ero abbastanza veloce per correre”. Tuttavia questo non ha certo fermato Andrea. […] Infatti una settimana dopo un altro team gli propose di correre nel campionato Aprilia: Dovizioso vinse la prima gara e poi il campionato, lottando contro Michel Fabrizio» (Marika Farinazzo). «Nel 2000 vince la categoria Under-18 dell’Aprilia Challenge 125. Con la GP, nel 2001, Dovizioso conquista l’Europeo superando in classifica Andrea Ballerini all’ultima gara. Nel 2002 debutta nel mondiale velocità con il team Scot. Con la Honda kit finisce il campionato 16° con 42 punti. La sua gara più bella, in Portogallo, si conclude tra le lacrime. All’Estoril, Andrea è quarto, ma a pochi metri dal traguardo scivola sulla pista bagnata. Chiude la stagione con due noni posti, a Le Mans e Donington, come migliori piazzamenti. A Bologna, durante la serata dei Caschi d’oro 2003, Andrea aspetta le premiazioni. Ma per lui, che ha chiuso il campionato 125 al quinto posto e senza vittorie, non c’è niente. Sorride e dichiara: “Tanto vinco nel 2004. Sono sicuro”. Una frase che sembra un azzardo, visto che alcuni bookmakers britannici lo offrono a 20 contro 1. A fine dicembre, però, la Honda affida ad Andrea la 125 ufficiale. E la casa di Tokyo richiede un piccolo sacrificio ai tecnici della squadra, costretti a sobbarcarsi una lunga trasferta in Giappone e 7 giorni di corso teorico per apprendere tutti i segreti della moto iridata nel 2003 con Daniel Pedrosa. Dovizioso li ripaga subito e a Welkom vince la prima gara del mondiale. Nel 2004 Andrea conquista il titolo 125 da dominatore, stando in testa dalla prima all’ultima gara come fece Haruchika Aoki nel 1995» (Specchia). «Simone Battistella è il suo manager. […] “Nel 2004 dominò il mondiale 125 con la Honda: un talento purissimo”, racconta. “La stagione dopo, 3° posto finale all’esordio in 250 con Pedrosa campione. Poi due volte consecutive 2°, nonostante una moto nettamente inferiore. Sembrava destinato ad un futuro straordinario”. Macché. Il salto in MotoGP con la Honda di un team satellite e un rosario di piazzamenti, con un’impennata che pareva l’eccezione della regola – la vittoria di Donington 2009 –, prima di ripiombare nel gruppo delle comparse. Bravo, ma perdente. “Sono stati gli anni più difficili: ha cominciato a dubitare delle sue capacità, ingigantire i suoi limiti. Lo ha salvato l’intelligenza, l’umiltà: non si è abituato alle sconfitte, ci ha lavorato sopra per farle diventare un punto di forza”. L’ingaggio in Ducati nel 2013, quando un Valentino depresso ha appena tolto le tende. A Borgo Panigale sbarca anche Gigi Dall’Igna, l’ingegnere che di lì a poco tornerà a far volare la Rossa. Forse non è casuale che i due si incontrino. Tre secondi posti consecutivi all’inizio del 2015: la Ducati va forte, ma a tutti e due – pilota, moto – manca ancora qualcosa. Iannone che in Argentina lo tira giù alla penultima curva, poi la delusione del Red Bull Ring. Ed è allora che accade qualcosa. Clic. “Ha finalmente incontrato le persone giuste, poco alla volta è diventato più sereno, meno introverso, più lucido. Ha lavorato alla scultura di se stesso, togliendo le cose inutili che lo rallentavano: ed ora è un capolavoro”. Un neuropsicologo cileno, Eugenio Lizama. Amedeo Maffei, l’amico-guru-psichiatra che gli ha insegnato a relazionarsi meglio con gli altri. Il preparatore atletico Francesco Cuzzolin, il fisioterapista Francesco Chionne. […] “Tanti piccoli dettagli fanno la differenza. Alleno il corpo e la mente, ho imparato a gestire le situazioni: in gara sono così concentrato e tranquillo che quasi mi sembra di muovermi al rallentatore, tanto sono sicuro di me”, giura» (Calandri). La svolta a Sepang, in Malesia, il 30 ottobre 2016. «Solo Dovizioso sa cosa significhi passare 2.635 giorni senza vincere: l’ultima volta era stata in Inghilterra nel 2009. […] Andrea ha portato la sua Ducati al successo sul bagnato in Malesia. “Quando, all’ultimo giro, sono passato alla prima curva, ho visto la mia ragazza e gli amici con le lacrime per l’emozione, ho incominciato a singhiozzare e ho pianto fino al traguardo”, ha raccontato. È arrivato da solo, dopo avere staccato Rossi negli ultimi giri. La maledizione era sconfitta, la pressione scomparsa, “perché vincere era diventato un incubo, un obbligo. Tutti se lo aspettavano e io soffrivo”, lo sfogo del forlivese. […] I complimenti sono tutti per il Dovi, e la Ducati si stringe intorno a lui» (Matteo Aglio). Nel frattempo, però, la Ducati aveva già ingaggiato il campione spagnolo Jorge Lorenzo per dodici milioni di euro a stagione, un compenso oltre dieci volte superiore rispetto a quello di Dovizioso. Anziché demoralizzarsi, l’italiano ne trasse stimolo per dimostrare il proprio valore, e nel 2017 colse il suo annus mirabilis, conquistando ben sei vittorie (a partire da quella al Gran premio del Mugello) e otto podi, e contendendo fino alle fasi finali il titolo iridato a Marc Márquez, per attestarsi infine al secondo posto, lo stesso ottenuto l’anno successivo dopo quattro vittorie e nove podi, ancora dietro a Márquez; assai deludenti, invece, nelle medesime stagioni, i risultati di Lorenzo, confinato rispettivamente al settimo e al nono posto. Nel 2019, «Andrea Dovizioso si appresta a vivere forse la stagione più importante della sua carriera. Dopo un biennio di battaglie con Jorge Lorenzo, infatti, nel box della Ducati la musica è nettamente cambiata. A Borgo Panigale è arrivato Petrucci, pilota abile e veloce, che però non ha ancora nel nome quel prestigio che aveva invece lo spagnolo. L’ex Pramac, quindi, a meno che di clamorose sorprese, si metterà completamente al servizio del proprio compagno di team per crescere insieme. […] Insomma, dopo anni di gavetta a sputare sangue prima su moto clienti e poi su una Ducati ufficiale che non andava per niente, […] Andrea finalmente può prendersi quella gloria che merita e che troppe volte gli è stata sottratta da un ambiente, bisogna dirlo, non sempre gentile con lui. Il talento c’è, la moto anche: manca solo l’ultimo scatto per riportare in Italia un titolo che manca da 10 anni» (Antonio Russo). «“Il limite non esiste. E la parola ‘impossibile’ è stata inventata da un maestro pigro”. Anche se sono due stagioni che fa meraviglie, però finisce secondo dietro al cannibale di Cervera. “Quando pensi di non farcela, ad andare oltre, di aver dato tutto e magari non è bastato, ecco: quello è il momento per continuare a crescere, alzare il livello. Dal punto di vista tecnico, fisico, mentale”. Resilienza. “E tutto questo mi rende felice, sereno: non ho paura di nulla, figuratevi di andare a prendere Márquez sulla Luna”» (Calandri) • «“Te, Dovi, sei del colore dell’asfalto”, mi disse un giorno Luca Cadalora. La gente non mi vedeva proprio. Se sei uno che vive di corse, cerchi disperatamente i risultati ma non vinci e in più sei introverso, uno che vuole essere persona e non personaggio, non vieni notato. La massa, di base, è attenta ad altro, non ha voglia né tempo da perdere per imparare a capirti». «Il bravo ragazzo è diventato un uomo. Un vincente. Uno speciale, un vero duro, un campione. […] “Io resto un bravo ragazzo. Solo che adesso ho le palle. O, meglio, diciamo che ho imparato ad usarle”» (Calandri). «Le vittorie aiutano sempre. Si diventa interessanti. Però i riflettori si spengono velocemente. Il mio vero exploit non è aver vinto sulla Ducati, che, per inciso, è cosa diversa rispetto a qualsiasi altra moto. […] L’exploit è esserci riuscito emozionando alla mia maniera: cioè rimanendo me stesso, senza compromessi, tranquillo, riservato, mai showman. […] Questa mia normalità, in mezzo a un mondo di eccessi, ha invece stupito, rivelandosi originale. Oggi è tutta questione di immagine. Si deve apparire indipendentemente da ciò che realmente si è o si fa. […] Credo sia piaciuto questo mio non voler essere al centro dell’attenzione: questa mia voglia di normalità ha unito persone diverse e generazioni diverse. Probabilmente la gente si riconosce più facilmente in una persona che, nonostante faccia cose non normali, nonostante guadagni cifre ben diverse dalle persone comuni, vive e ragiona e si comporta esattamente come loro. Senza eccessi. E questo mi dà una soddisfazione che non ha prezzo»» (a Benny Casadei Lucchi). «Se provassi a fare lo “sborone”, mi verrebbe male di sicuro, e non c’è niente di peggio di uno sborone sfigato. In realtà, io adoro essere al centro dell’attenzione: lo faccio da quando sono bambino, ma a modo mio» • Una figlia, Sara (2009), dall’ex compagna Denisa; sentimentalmente impegnato dal 2013 con l’ex «ombrellina» Alessandra Rossi. «Alessandra è come me. Viviamo in disparte. Perché il nostro amore non è social. […] Abbiamo progetti importanti. È anche merito suo se ora ottengo certi risultati. Non basta la moto, non basta l’allenamento: serve soprattutto che a casa sia tutto a posto». «“Sara […] vive con me. Sono un papà presente. Gare e impegni permettendo. Appena posso, resto a casa. A volte litigo con la Ducati per partecipare a meno eventi possibili. Solo così riesco a stare di più a Forlì e a seguirla. Vivere tanto la casa aiuta come genitore e ad ottenere il massimo dalla moto. Per un atleta troppe distrazioni non vanno bene”. La vai a prendere a scuola? “Ovvio. E parlo con le maestre. Sarebbe strano il contrario, no?”. E nell’attesa della campanella firmi autografi ai genitori. “Ecco, sì. E in questo faccio fatica. Hanno il personaggio davanti e vanno come in trance, e invece vorrei solo dirgli: guardate che io sono come voi, normale, niente di più”. E per tua figlia cosa sei? “Un papà che lavora con la moto. Semmai il problema è con i suoi amichetti…”» (Casadei Lucchi) • «Come spendi? “Compro scarpe da ginnastica. Non le colleziono, ma ne possiedo parecchie: alte da basket, basse, bianche immacolate o colorate. Per le scarpe, non solo sneakers, un debole: secondo me rivelano sempre qualcosa di chi le porta”» (Marinoni) • «Ho sempre avuto un carattere deciso e riflessivo, forse per il rapporto che hanno avuto i miei genitori, un po’ burrascoso. Per tanti anni hanno litigato in casa: io ero piccolo e mi mettevo già nel mezzo. Questa cosa mi ha responsabilizzato e mi ha fatto diventare un tipo solitario. Ancora adesso mi dicono che non sono solare, che sono chiuso, ma da piccolo ero peggio. Quindi posso dire che sono maturato da solo. Che sono stato obbligato a maturare, a capire cosa mi serviva per farmi stare bene» (a Moreno Pisto) • «Vedo sempre più corridori da “vinci o muori”, che ti odiano perché li batti. Un tempo era uno sport di appassionati, in cui i risultati contavano fino a un certo punto. Oggi tifi uno e odi quell’altro, il clima è avvelenato. E a me questa cosa fa schifo. […] In pista non ho nessun amico, e questo mi spiace. In pochi abbiamo la fortuna di fare questo lavoro, e sarebbe bello condividere certe figate con chi ha le tue stesse esperienze. Ma nel MotoGP girano tanti soldi, e questo crea delle barriere tra noi piloti. Ognuno si rinchiude nel proprio branco, non si fa più nulla assieme» (a Dario Falcini). «Rossi? “Vale è tante cose. Lo si può amare o odiare, ma ha attirato e appassionato milioni di fan. Lui è l’anomalo che ogni tanto viene fuori nello sport. È il Tomba dello sci, è il Bolt dell’atletica. Ha cambiato e condizionato il nostro mondo, e, quando hai la forza di condizionare, significa che di quel mondo sei il re”. Márquez? “Marc è uno che ha spostato i limiti dell’andare in moto”. Cosa significa? “Prima di lui, chi aveva appena rischiato di cadere non riusciva più a rendere al massimo: era come se gara e prestazione venissero compromesse. Marc ha dimostrato che si può sbagliare senza poi condizionare il rendimento”» (Casadei Lucchi). «Lei e Marco Simoncelli eravate rivali. “I rivali per eccellenza. Noi e le nostre famiglie. La morte di Marco mi ha cambiato nel profondo: la rivalità determina opinioni sbagliate sulle persone. Ho capito che quello che avevo vissuto fino a quel giorno era solo un punto di vista. Siamo abituati a parlare male degli altri, a commentare. È limitante. Bisognerebbe pensare più a se stessi: si vivrebbe meglio e si creerebbero meno problemi agli altri”» (Piero Negri) • Milanista. «Sono più un simpatizzante che un tifoso vero e proprio. Se il Milan perde, la notte dormo lo stesso» • Un tatuaggio al polso destro. «C’è scritto “Ten bota”, di immediata comprensione anche per chi non mastica il dialetto romagnolo. “Lo abbiamo in cinque, i miei amici più stretti, che mi seguono da quando sono ragazzino. Per tanti anni non ho vinto nulla: abbiamo tutti dovuto tenere duro”» (Falcini) • «I social non le piacciono. “Per me è difficile avere a che fare con il niente. A quasi tutti interessa solo la foto con uno famoso da mettere sui social. È una delle cose con meno sostanza al mondo. Mi dà fastidio. Perché devo avere a che fare con la poca sostanza?”» (Negri) •  «“La velocità non mi ha mai dato adrenalina: per quella c’è la competizione. Ho avuto uno shock a 13 anni, quando sono passato dalla minimoto alle 125: ero uno e 47 e ho rischiato di rovinarmi, non ero pronto. Mi eccita di più andare a 60 all’ora nel motocross”. Questa disciplina è la sua grande passione. “Riesco a praticarla due volte al mese, come allenamento”» (Falcini) • «Non aver finito la scuola è un peccato a livello di cultura: mi rendo conto che mi mancano certe basi. Ma come maturazione ho imparato molto, molto di più che uno che fa l’università. In questo lavoro devi confrontarti sempre con persone più grandi: o cresci e impari o sei fregato». «Intransigente con me stesso, vado oltre l’onestà e la verità, fino a diventare autolesionista. La maggior parte della gente cerca scuse per giustificarsi; io, se penso di avere una piccola colpa, mi autodenuncio e la metto davanti a tutto. La amplifico. Vedo solo quella. Analizzo, sviscero, rompo il capello in quattro, quattrocento, quattromila pezzi. Ragiono, rimugino, rimesto, perdo di vista pure le cose positive che ho fatto» • «Come si confronta con il rischio, con la morte? “Ho un tatuaggio che dice che sono padrone del mio destino, ma solo il destino conosce la fine del cammino. Noi piloti sappiamo che può succedere e, quando accade, ci appelliamo a una sorta di egoismo positivo, concentrandoci su di noi. Non è menefreghismo. Con Marco Simoncelli, però, è stato diverso. Non eravamo amici, ma quel giorno del 2011 a Sepang, quando è morto, ho sentito per la prima volta un vuoto dentro. Lui era da sempre il mio avversario: dopo mezz’ora che ero tornato in pista sono esploso in un misto di pianto e rabbia”. […] Ha qualche scaramanzia prima delle gare? “Infilo sempre prima il guanto e lo stivale di sinistra, solo perché mi viene più comodo. E c’è una cosa che devo fare prima di salire in moto: la pipì! I piloti bevono di continuo per scongiurare la disidratazione, perciò ogni due per tre si pone il problema. Il mio meccanico Fabio ha modificato uno scarico della moto in modo che io possa usarlo lì nei box. Non è mica semplice fare pipì con una tuta di pelle addosso, con la cerniera che non si apre fino in fondo e con il casco in testa: così si adottano soluzioni creative”» (Cristina Manfredi). «Non ho mai pensato a quanto correrò: di sicuro fino al 2020, poi dipenderà dai risultati. Non ho mai pensato a fare questo o quello entro un certa data. Mi trovo in un momento molto felice e fortunato: l’importante è crederci sempre più. Ogni giorno, ogni gara, ogni anno. Salire un altro gradino: la Luna è vicina». «Rimarrò in MotoGP solo finché me la giocherò: se sei ottavo, con simili pressioni, per me non ne vale la pena. Poi avrò tempo per il mio amato motocross, oppure il superenduro in bici».