Libero, 22 marzo 2019
Anche i grandi scrittori sbagliano la punteggiatura
La punteggiatura non è una scienza esatta, e nemmeno la condizione necessaria e sufficiente di un testo di qualità: ci sono libri con una punteggiatura impeccabile di una mediocrità sconcertante. Tuttavia, come spiega Leonardo G. Luccone nel suo saggio Questione di virgole. Punteggiare rapido e accorto (Laterza, 244 pagg., 16 euro), virgole, punti e virgola e compagnia svolgono tre funzioni vitali nella scrittura: 1) logico-sintattica, 2) ritmico-intonativa, 3) autoriale. Queste tre funzioni corrispondono, rispettivamente, a una corretta organizzazione delle frasi, all’accentuazione enfatica e alle pause, alle scelte stilistiche. Sbagliare a mettere la punteggiatura, nel primo caso, vuol dire rendere incomprensibile o ambiguo il testo, nel secondo vuol dire enfatizzare ciò che non lo meritava, e nel terzo, semplicemente, rivela uno scrittore incerto, privo di personalità. Non è un caso se, come ci spiega Luccone, la scrittura ai suoi albori (cioè circa 3400 anni fa) non avesse punteggiatura, la quale si è formata circa un millennio più tardi. Ancora i Latini usavano la scriptio continua, e infatti le iscrizioni che ci sono pervenute sono concatenazioni fitte di lettere, che richiedono uno sforzo a chi, come noi, è viziato dallo spazio e da virgole messe anche a sproposito. A tal riguardo, Luccone cita Gabriele D’Annunzio, che cantava la frugalità in materia di punteggiatura: «Costrutto molto virgolato è costrutto molto bacato. Alle troppe virgole si riconosce che la locuzione è marcescente». L’Immaginifico, coerentemente, prediligeva gli elenchi di doppi o tripli aggettivi giustapposti, senza separarli dalle virgole. Una pratica che Luccone esemplifica citando – il libro è particolarmente godibile essendo una messe ricchissima di esempi di autori di ogni genere – tra gli altri un brano da Jack Frusciante è uscito dal gruppo di Enrico Brizzi, dove si legge: «Fino al giro di boa dei sedici anni e mezzo il nostro minorenne attento pettinato passivissimo»; una tripla aggettivazione incatenata che, in un libro salutato alla sua uscita come massima espressione della narrativa “giovanilista” e ribelle, in realtà tradisce proprio dalla punteggiatura (che è anche una palmare spia stilistica) il suo debito con la tradizione.
LA REGOLA
Naturalmente in contesti “sorvegliati”, scrive Luccone, omettere la virgola dagli elenchi di qualunque specie (aggettivi, nomi ecc) è sconsigliato. Al contrario, si guardi l’esempio sommo di Ariosto, l’incipit dell’Orlando Furioso: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto» eccetera. Attenzione: qui, dopo l’ultimo elemento dell’elenco (l’audaci imprese) la virgola non c’è. Come mai? Perché la libertà dell’autore spazia purtuttavia in recinti pressoché invalicabili. Sono alcune regole che, senza essere dogmi, si consiglia di rispettare sempre. Una per l’appunto afferma che non si mette la virgola tra il soggetto e il verbo, o tra il verbo e il complemento. Non si può dire: «Io canto, l’audaci imprese», separando il verbo dal suo oggetto e, simmetricamente, sarebbe scorretto dire: «L’audaci imprese, io canto». Soggetto e verbo o verbo e complemento sono come atomi che la virgola, o qualunque altro segno di punteggiatura, frammenterebbe con risultati catastrofici. Una regola cui non si dovrebbe derogare nemmeno quando il soggetto è “espanso”, cioè non composto di un solo nome, ma di un nome e ulteriori informazioni portate da aggettivi o complementi indiretti. Ecco un esempio di un errore con una virgola dopo un soggetto espanso: «L’idea che per tutta l’estate avevan corso le autostrade stretti insieme sulla moto, mi fece una rabbia»; è Cesare Pavese, da Il compagno, e il soggetto espanso («L’idea che per tutta l’estate avevan corso le autostrade stretti insieme sulla moto») è seguito da una virgola che si frappone tra di esso e il verbo, e che potrebbe essere eliminata senza danno. Anche qui, però, si può dibattere: quella virgola può essere stata “chiamata” per spezzare, introducendo una pausa, l’allitterazione “moto” e “mi”, o semplicemente per calcare emotivamente il peso sul soggetto espanso, come per una contrazione di energie che, trattenute dalla virgola, poi esploda nel “mi fece una rabbia” seguente. Meno difendibile la virgola messa da Calvino, in analoga costruzione, in un passo delle sue Lezioni americane: «Ma l’eroe di questo racconto di Kafka, non sembra dotato di poteri sciamanici né stregoneschi»; qui la virgola dopo “Kafka” è leziosa, pretenziosa, e pertanto non è giustificata la violazione della regola. Luccone poi mostra come sovente uno stesso autore punteggia una volta in un modo, una volta in un altro, senza apparente motivo. Ecco Landolfi: «Quanto il misero soffrisse di una simile condizione, è superfluo ribadire»; qui c’è una virgola dopo la subordinata, mentre altrove sparisce: «Che cosa io intenda con questa umanissima tra tutte le parabole è fin troppo chiaro». E che fare dell’annosa questione delle virgole prima delle congiunzioni e, o, ma? Ci va o non ci va? Di nuovo, dipende. Se c’è un mutamento forte, come un cambio di soggetto, meglio usarla, altrimenti, specie se si vuole dare un ritmo sostenuto alla frase, ometterla. Le regole sono fatte sì per essere violate, ma prima, bisogna conoscerle.