Le scommesse con la tv generalista sono sempre un azzardo.
«Era dai tempi dell’Eiar che non si osava così tanto. È inutile fare gli intellettuali e dire "la televisione non mi piace". A me piace! Io sono con Pinot Gallizio, situazionista e inventore della pittura industriale; nel 1957 diceva che la televisione avrebbe colorato le case e ci avrebbe quotidianamente cullato. Su Rai 3 faremo la rivoluzione! Racconteremo delle storie di musica dentro la Storia della musica, usando due sinfonie di Beethoven, la Quinta e la Settima, esplorando cosa c’è tutt’intorno, cosa ci ispira. È un’estensione della mia idea delle prove aperte, come quelle che farò a Todi il 4 maggio, questa volta con i due Stabat Mater di Pergolesi e Rossini».
La partecipazione a Sanremo è stata un momento di gloria pop e una lezione di filosofia, potente come il suo discorso sulla Musica al Parlamento Europeo.
«Sanremo ha promosso un’immagine di me che ancora pago, presentandomi come pianista disabile più che come uomo di musica con un passato importante e un presente complicato. Ma mi ha dato anche l’occasione per dimostrare che si vince con i contenuti, con Beethoven, non con i lustrini».
Anche Bernstein, nelle sue famose Lezioni, partì da Beethoven.
«Perché Beethoven era "il corruttore", inseriva i sentimenti dentro la musica, per trasfigurare non per allietare; rabbia e frustrazione metabolizzate in energia positiva. Einstein non riusciva a sopportarlo proprio per quell’"eccesso di nudità" che anticipa Jung. Beethoven dichiara apertamente che per immaginare il futuro bisogna guardare anche al passato remoto, ecco il suo legame con Händel, Gluck e Bach. Quale migliore esempio ispirarsi a uno che dell’umanità ha fatto musica, rinunciando al potere che poteva derivargli dalla genialità? Per questo, nella trasmissione, chiedo ai miei ospiti, quanta paura ti fa Beethoven?».
Nei sessant’anni trascorsi dalle lezioni di Bernstein, la distanza tra il pubblico e la classica non si è ridotta; «un accesso classista», come lo chiama lei.
«La situazione, se possibile, è anche peggiorata. C’è ancora chi vuole dimostrare che la musica è appannaggio di pochi, una visione post-adorniana: la pretesa, dannosa e antimusicale, di rivolgersi solo ad ascoltatori competenti e preparati. Io vedo un’ignoranza mostruosa nei cosiddetti musicofili e in chi gestisce la musica. Alla gente non frega niente né degli uni né degli altri; il pubblico ascolta e trascende. La musica è come l’amore: ha bisogno anche della fisicità, perché l’eccesso di purezza lo distruggerebbe. È leggero, grande, profondo; è un atto di coraggio».
Vede in giro colleghi disposti a mettersi in gioco come fa lei?
«È molto comodo fare il reietto della musica classica. A me invece interessa avere sempre l’ascolto pronto, non la sicumera, che non è sicurezza. Mi piace il direttore Teodor Currentzis, dicono che ci assomigliamo, grazie al mecenatismo riesce a esplorare, provare, creare, inventare, vivere h24 con la sua orchestra e il suo coro. Per realizzare la sua utopia si è confinato nella Russia remota, a Perm, sotto gli Urali».
Lei, a ragione, sostiene che Beethoven può suggerire emozioni forti come i Rolling Stones, il che riapre l’annosa questione della didattica.
«Bisognerebbe educare già nelle scuole per l’infanzia alla bellezza e allo stupore, in senso aristotelico. Ma questa è utopia. Oggi è la televisione ad avere un ruolo centrale nella discussione. Non basta dire "bisogna imparare ad ascoltare", dobbiamo metterci in gioco, noi che abbiamo la bacchetta in mano, e trovare delle soluzioni umili».
Dirigere è ormai la sua priorità?
«Sì, è l’unico modo per far star bene e sentirmi bene. Suonare è diventato frustrante, non riesco ad andare "oltre" come vorrei, a esprimermi con il perfezionismo di quando ero in salute. Se non arrivo dove voglio, m’insulto da solo, maledico le due dita che non reagiscono abbastanza in fretta».
Ci ha fatto preoccupare quando ha twittato "There’s the time to say goodbye".
«Era un brutto momento, questi mesi sono stati molto pesanti per me, a causa della salute ma anche per l’idiozia di qualcuno. Quella frase era un omaggio a Claudio (Abbado), le ultime parole che mi disse quando capì che non c’era rimedio alla malattia: "C’è un tempo per dire addio". Devo ricordarmelo anch’io, nei momenti belli e in quelli brutti. Avrà da preoccuparsi quando posterò: "It’s time to say goodbye (È il momento di dirsi addio)"».
Pensavamo che ormai fosse al riparo dagli attacchi degli idioti.
«Solo la morte ci libera dagli idioti. È inevitabile, per paura, per pregiudizio; parlo di quelli che scrivono che io porto gentaglia a teatro — quando leggo queste cose mi viene male. Vorrei far del bene alle persone e, come diceva Céline, togliermi di torno quando mi fanno notare che sono di troppo».