Professoressa Uhlenbeck, quando è nata la sua passione per la matematica?
«Non subito. Da piccola ero attratta soprattutto dalla lettura. Leggevo romanzi e libri di ogni genere che portava a casa mio padre. Sono cresciuta nella campagna del New Jersey e non c’era molto altro da fare per noi bambini. Leggevo tutta la notte e in classe durante le lezioni, tanto da farlo di nascosto, senza farmi vedere dagli insegnanti. Dalla narrativa sono passata ai libri di scienza ed è stato lì che ho deciso di studiare fisica. Ma non ero fatta per stare in laboratorio».
Meglio la solitudine dei numeri, davanti a una lavagna piena di formule?
«Era la carriera che volevo. Da ragazza trovavo faticosissimo avere a che fare con mio fratello e le mie due sorelle. Mi ripromisi di cercare una professione che non avrebbe richiesto lavoro di squadra».
Una donna che si specializza in matematica pura negli anni Sessanta. Come fu l’impatto con l’ambiente accademico?
«Avrei voluto iscrivermi al Mit o alla Cornell University, ma erano troppo costose per mio padre e ripiegammo sull’Università del Michigan. Tra l’altro c’erano più matematiche che in altri atenei americani. Una delle teorie, all’epoca, era che i genitori spendessero di più per i figli maschi, iscrivendoli ai college della Ivy League, che non per le femmine».
La neuroscienziata Gina Rippon, autrice del saggio The Gendered Brain (Il cervello genderizzato) sostiene che le donne sono ancora ingiustamente sottorappresentate nella scienza e che di questo passo si arriverà alla parità solo alla fine del 22esimo secolo. È d’accordo?
«Non sono sicura che sia necessaria una parità numerica tra uomini e donne. L’importante è che chi vuole diventare un matematico abbia l’opportunità di farlo, indipendentemente dal sesso. Sono le opportunità iniziali a dover essere uguali per uomini e donne».
Il premio che le è stato appena assegnato è un incoraggiamento per le ragazze con la passione per la matematica?
«Spero proprio di sì. Anche se molto è cambiato da quando ero studentessa. Oggi le ragazze che fanno matematica sono tantissime».
Che consiglio dà alle giovani donne?
«Di interessarsi alla matematica e di studiarla. Ma soprattutto di porre domande senza vergognarsene. Se vi dicono che una cosa si fa in un certo modo, chiedete sempre: perché? Troppo spesso si insegna senza dare spiegazioni: è così e basta. Mentre in matematica, come nella vita, ci sono sempre almeno due modi per ottenere lo stesso risultato».
Di cosa si occupa e perché le hanno assegnato l’Abel Prize?
«Non è semplice spiegare la matematica pura. Studio equazioni che descrivono le superfici di oggetti immaginati dai fisici teorici e che hanno a che fare con le particelle elementari, per esempio nell’ambito della Teoria delle stringhe. Prima degli attuali supercomputer l’unico modo di maneggiare queste equazioni era la matematica teorica. Che però è importante anche oggi, perché anche se si fanno girare i modelli sui calcolatori molto potenti è necessario capire la matematica che c’è dietro».
È tra i matematici che trovano una particolare bellezza nei numeri e nelle formule?
«Posso dire che è bella una sinfonia, ma mi è difficile applicare la categoria di bellezza alla matematica».
Ha scritto che il suo primo amore, più che la matematica, è stata la natura. È ancora la sua vera passione?
«Sì, amo la natura. Da giovane ho scalato montagne, fatto trekking zaino in spalla, viaggiato in bicicletta in tutto il mondo. Ma ora sono troppo anziana per arrampicare. E però mi godo con la famiglia le vette del Montana».