il Giornale, 22 marzo 2019
Contro le cremazioni
Se credete alla casa editrice ovvero al titolo, all’immagine di copertina, al risvolto, è un romanzo d’amore. Se credete a me, che ho letto con crescente attenzione il testo racchiuso dentro questo romantico involucro, è un libro sul dilemma, se non sulla diatriba, cremazione/inumazione. Sto parlando di Anita di Alain Elkann (Bompiani), testo che non mantiene le promesse rosa e vira subito al nero, beninteso non in senso noir ma funerario. La considero una fortuna: di romanzi d’amore ce ne sono a bizzeffe, dell’ennesima vicenda lui-lei-l’altra (o l’altro) non ne sentivo il bisogno. E pazienza se qualche potenziale lettore invece non gradirà: vuol dire che era già destinato a Chiara Gamberale e Marco Missiroli.
Anita è libro molto evidentemente autobiografico: l’io narrante, l’uomo che s’innamora della donna del titolo, è un coetaneo dell’autore, è ebreo come l’autore, ha figli cattolici come l’autore, ha il padre seppellito al cimitero di Montparnasse come l’autore, ha una casa vicino a Torino come l’autore, è stato amico di Alberto Moravia come l’autore e seppe della sua morte in un caffé parigino, il Café du Depart, proprio dove lo venne a sapere l’autore (ricavo l’episodio da un libro del 2003, MoMo: gli appunti servono). Anche l’argomento è coerente con l’anagrafe, visto che Elkann è del ’50 e un quasi settantenne che non lascia disposizioni è un irresponsabile, un uomo che si figura immortale e non si fa scrupolo di lasciare problemi agli eredi. «Nel caso ci fosse veramente una vita dopo la vita, simile a quella che si aveva da vivi, farsi cremare è come suicidarsi». Elkann, scusate, il protagonista di Anita, non è molto credente eppure frequenta la sinagoga e condivide la biblica contrarietà alla cremazione: «I cristiani non permettono la cremazione e vestono i morti con eleganza. Gli ebrei vengono seppelliti con il taled del figlio o del padre». In verità parecchi cristiani, protestanti e cattolici che credono in Famiglia Cristiana, considerano la cremazione possibilissima. Nel Codice di Diritto Canonico si legge: «La Chiesa raccomanda vivamente che si conservi la pia consuetudine di seppellire i corpi dei defunti; tuttavia non proibisce la cremazione, a meno che questa non sia stata scelta per ragioni contrarie alla dottrina cattolica». Un notevole esempio di contorsione post-conciliare, un capolavoro di gesuitismo pre-bergogliano (il Codice è dell’83) che cerca di benedire la crescente adesione a un panteismo avente nella cremazione e nella dispersione delle ceneri le più ovvie conseguenze. Se l’ha capito uno scrittore non molto credente, chissà perché non l’hanno capito i cardinali, quanto la cremazione sia pagana.
Il tema è proprio caldo (bruciante?) se lo ritrovo in un’altra uscita recentissima, Mio padre, il pornografo di Chris Offutt (minimum fax). Altro continente, l’America, altro autore, ma lo stesso dramma e lo stesso autobiografismo: nel quinto capitolo lo scrittore del Kentucky scrive dei funerali del padre, se funerali si possono chiamare cerimonie funebri senza morto, senza tempio e senza prete. «Prima che arrivassi a casa il suo corpo fu portato fuori dalla contea per essere ufficialmente incenerito. Gli addetti alla cremazione gli aprirono il petto per rimuovere il suo impianto cardiaco». A differenza di Elkann, Offutt non prende posizione ma, per rendere lo squallore della faccenda, una descrizione oggettiva è più che sufficiente. «Le uniche istruzioni precise che aveva lasciato per quando fosse morto raccomandavano di aprire una certa bottiglia di bourbon di quello buono col suo nome sull’etichetta, e fare un brindisi». Ecco come si è ridotto il lutto nell’Occidente contemporaneo: una bevuta di whisky (o di whiskey, nello specifico). Che però non risolve il problema della collocazione dei residui: «Furono proposte diverse opzioni, ma nessuna attecchì: conservare le ceneri per seppellirle insieme alla mamma, spartirle tra i superstiti...». La cremazione sembra tanto pratica ma genera complicazioni che l’inumazione risparmia ai suoi seguaci. «Cosa fare delle ceneri: chi avrebbe dovuto tenerle?» si domanda anche il protagonista di Elkann, riferendosi ai resti della madre di Anita. «Rimasero per vari mesi nella nostra camera da letto nella casa vicino a Torino, e un’estate in cui eravamo in un’isola greca furono disperse nell’Egeo».
Lo spargimento acquatico va forte sia nella realtà che nella narrativa più attenta alle derive del presente. «Suo padre serviva adesso da cibo alle carpe brasiliane del lago di Zurigo»: qui è Michel Houellebecq che scrive. È La carta e il territorio, romanzo in cui il più epocale degli scrittori europei sembra parteggiare per l’inumazione, parlando attraverso il poliziotto Jasseline che «disapprovava totalmente la tendenza modesta, moderna, a farsi cremare e a disperdere le proprie ceneri nel cuore della natura, come per mostrare meglio che si ritorna nel suo seno. L’uomo non faceva parte della natura. Gli pareva empio, benché non credesse in Dio, in certo qual modo antropologicamente empio disperdere le ceneri di un essere umano nei prati, nei fiumi o nel mare». In Francia, nazione più scristianizzata della nostra e dunque più cremazionista (a farsi incenerire è ormai un francese su tre), il tema è molto sentito e ne hanno scritto, con sensibilità vicina a quella di Houellebecq, saggisti del calibro di Chantal Delsol e Jean Clair. Esiste un lontano predecessore ed è nientemeno che il Céline di Viaggio al termine della notte. A colpi di esclamativi e puntini, nel 1932 aveva già scoperchiato la questione: «Voglio soprattutto che non mi brucino. Vorrei che mi lasciassero nella terra, a marcire al cimitero, tranquillamente, là, pronto a rivivere, forse... Chissamai! Mentre se mi riducono in cenere, Lola, tu capisci, sarebbe finita, proprio finita... Uno scheletro, malgrado tutto, assomiglia ancora un po’ a un uomo... È sempre più pronto a rivivere che delle ceneri... Le ceneri è finita!...».
Pur senza esclamativi e senza puntini, si può dire che tutta o quasi tutta l’opera del nostro Aurelio Picca sia un inno all’inumazione. L’autore di Tuttestelle, I mulatti, La schiuma, Se la fortuna è nostra lamenta la caduta del culto dei morti, la scomparsa della concezione foscoliana dei sepolcri. Non è soltanto letteratura, è impegno esistenziale che mi ribadisce al telefono: «Voglio farmi tumulare in una chiesa, possibilmente nella cattedrale di San Clemente qui a Velletri, e ho già fatto richiesta al vescovo per ottenere la deroga». Dopo la sua morte non ci saranno tremende discussioni sulla divisione delle ceneri come nei libri di Elkann e Offutt: ci sarà una lapide inamovibile e indivisibile. Ovviamente fra cent’anni.