il Giornale, 22 marzo 2019
Boom di neologismi per dire Brexit
La Brexit è complicata. Agli europeisti può provocare una forma di de-Bression, se non di Brexitophobia. La prospettiva di un compromesso troppo morbido con Bruxelles potrebbe invece causare Br-anger, rabbia, nei sostenitori duri e puri del divorzio. Di certo la materia è talmente complessa che si potrebbe inaugurare un corso di laurea in Brexitology. Nel mentre, chi da noi vuole emulare Londra sta già pensando a un’Italexit. La vittoria del fronte anti-Ue al referendum – anzi, Breferendum – del 24 giugno 2016 ha messo in moto diversi stravolgimenti. Tra cui anche uno lessicale. Sulla base del termine «Brexit», l’inglese è stato travolto da centinaia di neologismi e giochi di parole più o meno ironici sull’argomento. C’è tutto il vocabolario tecnico, che ormai anche i comuni cittadini hanno imparato a conoscere: dal backstop a Chequers, dal no deal che si avvicina inesorabile alla scadenza del 29 marzo fino alla contrapposizione tra hard e soft Brexit.
Ma il vocabolario dell’addio del Regno Unito all’Unione europea si è sbizzarrito anche sugli stati d’animo: Branxious per gli ansiosi, Bregret o Bremorse per i pentiti, fino alla più grave Brexistential crisis, vera e propria crisi esistenziale causata dai negoziati senza via d’uscita. Il capitolo dedicato al suffisso -exit, poi, fa storia a sé: ormai i sovranisti di ogni Paese Ue hanno coniato il proprio termine. Fino agli estremi: qualcuno si è inventato la Trexit, per dare un nome a chi se ne va dagli Stati Uniti perché non sopporta più Donald Trump, e chi ha già coniato la parola Mexit per quando Lionel Messi si ritirerà dal calcio. La portata del fenomeno non è indifferente. Una cosa simile era accaduta con il Watergate, il caso scoppiato negli Usa nel 1972 che ha portato alle dimissioni del presidente Richard Nixon: da allora per qualunque scandalo è già pronto il nomignolo giornalistico uscente in -gate.
E pensare che l’inventore della parola «Brexit», l’avvocato e analista Peter Wilding, a posteriori ha ripudiato la sua creatura. Wilding, europeista, la scrisse per la prima volta in un post su un blog datato 15 maggio 2012, pensando di fare un semplice calco da Grexit, termine nato per indicare l’ipotetica uscita della Grecia dall’euro. Anni dopo si è detto pentito: secondo lui l’orecchiabilità della parola e l’immediato successo che ebbe aiutarono il fronte del Leave a vincere il referendum. Chi la vede come lui è Simon Roberts, artista con base a Brighton, nel Regno Unito. Secondo cui il linguaggio ha avuto un ruolo fondamentale nel dibattito sulla Brexit. «I politici sono stati molto abili nello sfruttare la lingua per trarne degli slogan – racconta a il Giornale – La campagna pro Brexit in particolare è riuscita a creare un linguaggio visivo di impatto. Parole come immigrazione, invasione, perdita del lavoro e l’invito a riprendere il controllo hanno fatto breccia nella gente, anche se dicevano cose false. La campagna anti Brexit è stata più lenta nel capire questo meccanismo». E infatti ha perso. L’ultimo lavoro di Roberts, The Brexit Lexicon, consiste proprio in uno studio visivo del vocabolario della Brexit. L’opera è un’installazione video in cui per 80 minuti si vede un conduttore leggere un elenco di parole che hanno a che fare con l’addio di Londra a Bruxelles. «Volevo fare chiarezza mostrando tutte queste parole insieme per smascherare il modo in cui sono state utilizzate dai politici britannici ed europei», spiega. In due anni l’artista ha raccolto quasi 5mila termini scandagliando telegiornali, quotidiani e discorsi ufficiali. «Adesso – dice – sono a quota 7.500. Vorrei continuare fino alla fine dei negoziati. Non so se ne avrò la forza».