il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2019
«La crisi al Giornale è la fine del berlusconismo»
“Per certi versi questa storia segna la fine del berlusconismo…”. Un cronista della redazione romana del Giornale sospira sconsolato davanti agli ultimi eventi, che porteranno alla chiusura (il 30 aprile) della sede capitolina del quotidiano fondato nel 1974 da Indro Montanelli. “Ecco, chissà cosa direbbe oggi il grande Indro che, da milanese d’adozione, era ben consapevole dell’importanza del lavoro dei cronisti che nella Capitale devono muoversi nei palazzi del potere come topi nel formaggio…”.
Torniamo, però, al discorso sulla fine del berlusconismo. “Chiudere la redazione romana prima delle Europee – continua il cronista del Giornale – significa due cose: che nemmeno Silvio Berlusconi crede in un rilancio di Forza Italia oppure che la famiglia non è più disposta a seguire il patriarca nella sua avventura politica. Una cosa non esclude l’altra, ma il risultato è lo stesso: per Silvio è game over”. Anche se poi è proprio Silvio ad aver dato l’ok finale.
Il Giornale ieri non era in edicola per una seconda giornata di sciopero su un pacchetto di cinque a disposizione del Comitato di redazione. Ed èstata acquistata una pagina su La Verità di Maurizio Belpietro. “Così stanno distruggendo il Giornale”, recita il comunicato. “La chiusura di Roma con soli 40 giorni di preavviso è l’ultimo incredibile atto di un’operazione in corso da mesi (…) i lettori del Giornale non saprebbero più cosa accade nei palazzi del potere e della politica, in un momento cruciale per la vita del Paese… Non lo permettermo”, si legge. Toni barricaderi in vista di una trattativa che si annuncia durissima. Ma che sembra avere pochi margini. “Anche se dovessi andare a sdraiarmi davanti alla villa di Arcore, non servirebbe a niente. L’interlocutore è cambiato…”, ha detto il direttore Alessandro Sallusti nell’infuocata assemblea di martedì pomeriggio. Non è più ad Arcore, dunque, che bisogna guardare, ma a Segrate, sede della Mondadori, proprietaria del 36% delle quote (il resto è quasi tutto di Paolo). Marina, che si è già liberata di Panorama, vuole vendere e non ha accolto i suggerimenti di tagli proposti dai giornalisti. Come, ad esempio, alcuni illustri collaboratori piazzati a suo tempo da Silvio e molto ben remunerati. O come le due pagine appaltate settimanalmente, a caro prezzo, a Edoardo Sylos Labini, ex marito di Luna Berlusconi. “Gli paghiamo l’assegno di mantenimento…”, sussurra qualcuno.
La chiusura di Roma, però, non se l’aspettava nessuno. “Era già pronto il contratto per la nuova sede, più piccola, a via Barberini, con un risparmio di 10 mila euro al mese. Si era già fatto un sopralluogo con gli architetti…”, racconta un’altra voce della redazione. A Roma si era trovato un giusto compromesso. “Tutti noi siamo coinvolti nel desk, facciamo 3-4 pagine al giorno, tre redattori dipendono direttamente da Milano. E la cosa funzionava…”, raccontano. Segno, dunque, che lo show down segue altre logiche: spingere alle dimissioni, per esempio, così da avere un prodotto più snello e meno dispendioso (30% il taglio agli stipendi richiesto) da mettere sul mercato.
Lo stesso schema seguito per Panorama, venduto a Belpietro. In via Negri, però, ci si divide anche sulla linea politica. “Perdiamo copie perché inseguiamo un centrodestra che non c’è più, i nostri lettori ci vogliono più salviniani…”, dicono alcuni. “Quella parte è già coperta da Libero e La Verità. Noi dobbiamo tornare al primo Montanelli, una destra liberale e anarcoide…”, dicono altri. E si ritorna sempre al vecchio Indro. Che da via Negri fu costretto a sloggiare, e anche in malo modo.