La Stampa, 21 marzo 2019
Intervista a Emanuele Macaluso
Emanuele Macaluso compie oggi 95 anni e ha la fortuna di ricordarsela tutta la sua vita romanzesca. Da ragazzo finì in carcere per amore; quando l’Italia era guidata dal Duce volle prendere la prima tessera comunista a 17 anni; i mafiosi gli tirarono addosso una bomba durante un comizio e oggi può dire senza autocompiacimento: «Sono l’ultimo vivente che ha lavorato nella segreteria del Pci assieme a Palmiro Togliatti. E in quella segreteria c’erano Longo, Amendola, Ingrao, Berlinguer, Alicata, Natta, Pajetta…». La militanza accanto a questi disciplinati giganti non gli ha mai impedito di essere un comunista libertario e anticonformista e da anni trascorre un lucidissimo crepuscolo nelle due stanze della sua casa romana nel popolare quartiere di Testaccio, dove i libri di una vita, accatasti nel disordine di chi li ha letti, si mischiano con i giornali passati al setaccio dalle 6,30 del mattino.
Nel primo dopoguerra si scoprì che un piccolo partito di rivoluzionari, il Pci, era diventato un partito di massa. Come fu possibile? Come si diventava comunisti nella Sicilia profonda e fascista?
«Vivevamo a Caltanissetta, ero figlio di un manovale delle Ferrovie e avevo pregato quasi in ginocchio mio padre di mandarmi al ginnasio, ma lui mi disse: “Siete tre figli maschi, guadagno 500 lire al mese, non me lo posso permettere”. E così mi iscrissi all’istituto minerario, lo stesso dei miei fratelli, per poter ereditare i loro libri. A 16 anni mi ammalai di tubercolosi, sputavo sangue e vedendo che quasi tutti uscivano morti dal sanatorio, sognavo di poter vivere sino a 30 anni! Nessuno osava avvicinarsi al tubercolosario, ma un giorno venne un mio amico e mi disse: “Emanuele, io devo andare militare e poiché conosco i tuoi sentimenti ti dico che se vuoi continuare la battaglia contro il fascismo, l’unica organizzazione è quella comunista”. Accettai: della cellula clandestina faceva parte anche un certo Leonardo Sciascia. Finché un giorno, sa chi arrivò fino a Caltanissetta in gran segreto?».
Chi arrivò?
«Elio Vittorini. Stavano per sbarcare gli Alleati e lui, mandato dal Pci da Milano con una valigia piena di pubblicazioni clandestine, passò tutta la notte nella sala d’aspetto della stazione, “affamato e paralizzato dal freddo”, come scrisse Sciascia. Ma il pericolo era dover cercare una persona che non conosceva e un errore poteva portare al carcere. Fu anche così che il Pci divenne il Pci».
Nel dopoguerra lei guidò in Sicilia per molti anni la Cgil: è in quegli anni che si è fatta la «reputazione» che ne fa oggi la più grande organizzazione italiana?
«Allora si rischiava la pelle e molti sindacalisti socialisti e comunisti furono uccisi. Nel settembre 1944 andammo con Girolamo Li Causi a Villalba a sfidare il boss Calogero Vizzini. Mai un comunista aveva parlato in quel paese. Li Causi salì su un tavolo della piazza e ci spararono addosso. Lui restò zoppo per il resto dei suoi giorni».
Nel 1976, quando il Pci torna in maggioranza, il governo è guidato da Andreotti: come lo «digeriste»?
«Ricordo il giorno del voto: entrai nell’ufficio di Berlinguer e gli dissi: non sosteniamo Andreotti e così prepariamo una soluzione Moro. Lui mi rispose: sei un pazzo! Moro gli aveva detto: o Andreotti o non se ne fa nulla. Serviva per tranquillizzare tutta la Dc e gli Stati Uniti».
Quando morì un leader carismatico come Berlinguer, perché il Pci non ricorse all’unico personaggio con un carisma popolare come Luciano Lama?
«Con Lama ci conoscevamo dagli anni della Cgil, andai nel suo ufficio e gli dissi: alcuni compagni pensano a te. Mi rispose: non se ne parla nemmeno. Io sono un sindacalista, non ho la cultura per fare il leader di partito».
Del processo decisionale del Pci, così laborioso e riservato, cosa è ancora attuale?
«Il Pd ha una direzione di 150 membri e i lavori finiscono in tempo per i Tg. Per anni la direzione del Pci fu composta da 19 compagni, si cominciava alle 9 del mattino e si finiva alle 9 di sera e a volte si proseguiva anche il giorno dopo. Una volta ricordo che Amendola avanzò un’obiezione e Togliatti gli rispose: “Tu devi viaggiare un po’ di più”. Certo, c’era il centralismo democratico, ma quando fummo in dissenso con Berlinguer io fui mandato a dirigere l’Unità, Napolitano fu presidente dei deputati e Chiaromonte dei senatori. Allora esisteva un modo di concepire la lotta interna che non è paragonabile a quel che accade oggi».
La Lega, riveduto e corretto, è un partito di destra, ma in 80 anni di lotta politica ha mai visto qualcosa di paragonabile ai Cinque stelle?
«Nel primo dopoguerra si affermò rapidamente l’Uomo qualunque, col simbolo della pressa che opprimeva il cittadino. Le analogie? Erano molto forti nel Mezzogiorno, si esprimevano con il “vaffa”, svalutavano il passato. Ma allora si sviluppò una forte lotta sociale e politica, polarizzata sui grandi partiti, Dc da una parte, Pci e Psi dall’altro. Il fenomeno qualunquista si esaurì: totalmente cancellato».