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 2019  marzo 21 Giovedì calendario

Quando Bellocchio rise in faccia a Vittoria Puccini. Intervista

Ha cambiato tanti ruoli, Vittoria Puccini, in fuga dall’eroina romantica Elisa di Rivombrosa. Quella favola le è rimasta appiccicata addosso per anni, coincidevano realtà e fantasia, l’amore sul set e fuori per Alessandro Preziosi, da cui ha avuto la figlia Elena. Oggi, a 37 anni, è rimasta una ragazza dalla bellezza luminosa, che ha lavorato «per far capire ai registi che potevano andare oltre la mia faccia». Un misto di sicurezza e fragilità, ma quella luce speciale, senza trucco, resta: non a caso nella nuova serie Mentre ero via di Michele Soavi (scritta da Ivan Cotroneo e Monica Rametta), dal 28 su Rai 1, esce dal coma ma sembra uscita da una beauty farm. Un giallo a sfondo psicologico in cui interpreta Monica, una donna sposata con un ricco industriale di Verona che viene ucciso. Non ricorda niente, prova a ricostruire la sua vita con la psicologa Stefania Rocca: scoprirà che aveva un amante, che il suocero (Mariano Rigillo) la detesta e le impedisce di vedere i figli. La descrivono come viziata, egoista, superficiale (la stanza guardaroba con annessa scarpiera fa impallidire Carrie Bradshaw), ma lei non ricorda di essere mai stata così.
Chi è davvero questa signora smemorata?
«La storia è interessante, parla della rinascita. Ti dice che nella vita puoi costruire una nuova te stessa. Peccato che succeda sempre grazie a un evento traumatico. A volte basterebbe fermarsi e dire che bisogna cambiare qualcosa, ma va colta la possibilità. Monica non ricorda niente. Non si riconosce nelle descrizioni, non pensa di essere stata una mamma che non voleva essere toccata dai figli, è come se stessero parlando di un’altra».
C’è un prima e un dopo nella vita di tutti: lei quando ha messo un punto a capo?
«Dopo la morte di mia madre, il trauma più grande della mia vita. Certi eventi ti annientano. Se li vuoi superare devi trovare una forza che ti migliori, perché l’amore non sia vanificato. Devi lavorare per far diventare costruttivo il dolore».
Ci è riuscita?
«La battaglia più grande è sempre quella con sé stessi. Oggi so che voglio essere sorpresa dalla vita. Ho capito che se hai il coraggio di aprirti, qualcosa succede. Vivo un bel momento, il privato è pieno di amore. Lavoro. Non desidero altro».
Possiamo dire che "Elisa di Rivombrosa" le cambiò la vita?
«Lo possiamo dire sì. Quando hai un successo così grande sei travolto, i registi pensano che sei quella cosa lì. Poi c’era Alessandro, abbiamo avuto una figlia. Si è intrecciato tutto. Però è stato anche una condanna, il pubblico mi vedeva come un’eroina romantica. Non puoi esserlo per sempre».
Aveva il physique du rôle, sembrava uscita da un quadro di Renoir.
«La bellezza… Devi farla dimenticare. La devi "abbassare", questo è il verbo che hanno usato con me. Come se la bellezza ti portasse lontano dalla verità e non fossi credibile. Solo un pregiudizio, e poi è più interessante recitare quando essere belle non è una priorità».
Questi ruoli li ha cercati?
«Sempre. Penso al personaggio di Margherita di C’era una volta la città dei matti... di Marco Turco, un’esperienza forte anche dal punto di vista umano. Abbiamo girato nei manicomi. Le comparse erano ex degenti: andavo sul set senza trucco, sporca, ho attraversato territori lontani dai miei».
Qual è il suo rapporto con i registi?
«Tutti mi hanno dato qualcosa. A volte può capitare di non essere diretta, io invece ne ho bisogno. Forse perché non ho fatto una scuola o per carattere, ma voglio essere guidata. Con Muccino mi sono sentita nella centrifuga di una lavatrice, è il suo modo di lavorare. Baciami ancora è stata una esperienza pazzesca, ho imparato tanto».
È insicura?
«Sempre. Ma la mia insicurezza non mi ha mai bloccato, prendo forza in me stessa. Se c’è una regola in questo lavoro, è che quando sono andata sul set pensando "questa scena è facile" ho preso una batosta».
Fa i provini?
«Certo. Per la serie crime di Mediaset che sto girando, adesso, Il processo, l’ho fatto. Ma dipende. Per The place di Paolo Genovese, no: se hai già lavorato col regista sa quello che puoi fare. Per me è giusto farli, anche se non è facile. Ho fatto tali disastri da cui sono uscita in lacrime».
Racconti.
«Feci un provino con Marco Bellocchio per Vincere, una scena veramente drammatica e lui scoppiò a ridere. Uscii da lì pensando: voglio morire. Il ruolo andò a Giovanna Mezzogiorno, attrice straordinaria. Artisticamente era molto più matura di me, io non ero in grado. Ma se rivedo Bellocchio, il maestro del cinema italiano, che mi scoppia a ridere in faccia... Non mi ci faccia ripensare».
Segue la politica?
«Sì, con molto interesse. E non capisco quando dicono agli attori: pensino a fare il proprio lavoro. Puoi pensarla diversamente, ma sono libera di esprimere la mia opinione. Far morire la gente in mare non è una soluzione, e non c’entra destra o sinistra. Meglio gettare un ponte invece che bombardarlo. Non la voglio fare facile, è vero che ci deve essere un’azione europea, non le iniziative di singoli paesi. Ma una soluzione va cercata. Non si può far finta che non esista il problema mentre i migranti muoiono. Scappano dalle guerre.
Non vengono a rubarci il lavoro».