la Repubblica, 21 marzo 2019
Il libro da leggere per capire il mistero Elena Ferrante
?Elena Ferrante, scrittrice, è nata a Napoli.
C’è un agente segreto in forma di libro che torna a visitarci dopo trent’anni, e ci sussurra che per capire il mistero di Elena Ferrante dobbiamo entrare lì dentro. Sembra solo un romanzo, invece è un gioco cifrato. «Ecco il libro da cui tutto cominciò», disse al Venerdì di Repubblica l’editore della Ferrante nonché inventore di e/o, Sandro Ferri. La moglie lo fulminò con lo sguardo: aveva detto troppo, e lei lo sapeva. Da sempre, chi lavora in casa editrice sa che per capire il caso Ferrante bisogna leggere Rondò di Kazimierz Brandys, pubblicato per la prima volta da e/o nel 1986 e adesso di nuovo tra noi. Sei anni dopo Rondò, nel 1992, la fantasmatica Ferrante esordiva con L’amore molesto. Naturalmente, dentro Rondò non ci sono nome, cognome e indirizzo di Elena, ma c’è il meccanismo di travestimento e clandestinità che ispirò quella sorta di gioco di ruolo. Invitiamo anche voi lettori a partecipare, cercando indizi tra i capoversi. Spostiamoci dunque dai caseggiati di Lenuccia e Lila e andiamo a Varsavia, è il 1942 e Tom (uno pseudonimo, tanto per cominciare) è uno studente di legge che diventa comparsa teatrale per amore di Tola. Per restarle vicino e coinvolgerla in qualcosa che le dia senso, Tom inventa un gruppo di resistenza partigiana e lo chiama Rondò. La cellula spionistica è del tutto fantomatica, però plausibile. Tom manda Tola, staffetta e messaggera, a consegnare valigie piene di libri nei depositi bagagli delle stazioni tra Cracovia e Leopoli, la convince che tra le pagine siano nascosti messaggi in codice, così lei comincia a legarsi a questo misterioso ragazzo pensando di essere una specie di eroina e riprende vita, combattendo non solo i tedeschi (per finta) ma anche la depressione. Tola non deve correre alcun rischio, questo è essenziale. L’amore è prendersi cura e Tom ci riesce, finché la commedia non gli sfugge di mano. Le conseguenze saranno un crocevia di destini, appunto un rondò. Curioso che il diario/romanzo di un quasi dimenticato autore polacco nato nel 1916 e morto in esilio a Parigi nel 2000 – anche la biografia di Brandys non sfugge a fughe, depistaggi ed esistenze multiple – possa diventare il codice di interpretazione della Ferrante, ma è così. Ci sono, dentro Rondò, le tavole della legge di Elena. Per prima cosa, tutto è qualcos’altro e tutti sono altri. I nomi rimandano a chi non c’è («erano perciò liberi dal pudore di esistere»). Si parte da una messa in scena per raccontare il travestimento del vero («anche se non cercava la verità, sentiva il punto dove essa si nascondeva»). Gli oggetti sono sempre indizi: bagagli, specchi, persino il basco rosso di Tola che lascia sfuggire un’inaspettata cascata di riccioli («la verità è troppo facile, esiste per essere risparmiata agli altri»). Il tracciato di Rondò, incrocio che apre il labirinto, è una simulazione, la storia di chi fugge e di chi resta. Le carrozze trainate da cavalli e i tram dove qualcuno rischia di essere ucciso rimandano al palcoscenico dove altre morti, recitate e vere, ma soprattutto scambiate (c’è anche del veleno bevuto da chi non doveva) sono trama e allusione, plot e metafora. Dev’essere dunque accaduto che dopo la prima pubblicazione, a e/o sia venuta voglia di giocare. Forse allo stesso Domenico Starnone e alla moglie Anita Raja, vicini all’editore da subito e a tutt’oggi i più accreditati a essere proprio Elena Ferrante, insieme o separati nello scrivere. I sospettati negli anni, com’è noto non si contano, da Goffredo Fofi a Guido Ceronetti, da Fabrizia Ramondino alla stessa famiglia Ferri, editore più editore (Sandro Ferri e Sandra Ozzola) senza escludere la sorella Linda, fino a quella bizzarra ipotesi della professoressa napoletana di storia, Marcella Marmo. Una frantumaglia che non ha risolto nulla, forse perché ci si è concentrati più sui sospettati che sul delitto, trascurando i meccanismi di chi scrivendo si muove con i guanti in lattice per non lasciare impronte (salvo quella, fondamentale, dello stile, e qui Starnone o “gli Starnone” non sfuggono ai ritmi della lingua, ai modi e ai nodi di una voce più che riconoscibile, come si è detto fino alla noia). Anche Elena, proprio come la fragile e bellissima Tola, ci manda tuttavia una cartolina senza firma. «Sono viva. Dimenticatemi». Ed è proprio Rondò il luogo del delitto. «Scherzi. Non erano che scherzi, vero?». Nella Varsavia vagamente parigina, dal momento che anche le città diventano altro da sé, Tom cerca di scoprire la soluzione di Tola e s’illude che la messa in scena lo riscatti («la costruzione delle apparenze, da quel momento in poi prosegue da sola»). Ma la vita ha più fantasia e concede, a ogni autore, di essere solo un clandestino a bordo dell’opera: troppe strade si dipartono dal centro del crocicchio, linee che sfuggono al controllo. Governarle («io, però, desidero che quello che vorrà tenermi nascosto funzioni nel migliore dei modi») è pia illusione. I nervi di Tola alla fine cedono, e la malattia psichica diventa a sua volta una moltiplicazione di identità. La menzogna di Tom è accettare di vivere ogni ruolo, ogni parte, veramente: lo studente e il soldato, il detenuto e la comparsa, il guardarobiere e il partigiano, il mistificatore e l’innamorato, il mercante di quadri e il padre. Invano, o forse no. Molte scene disvelano il gioco, come quando Tom invecchiato si guarda allo specchio e insieme osserva un ritratto di Tola, il prisma restituisce cambi di luce e colore, quando non si capisce più nulla si comincia a riprendere il filo. Del resto, lo stesso scrittore polacco era sorpreso “dai tanti Brandys diversi” che lo abitavano. Ogni biografia è travestimento, affabulazione, ma sempre nel rispetto dello schema. Nessuno lo sa meglio di Elena Ferrante, attentissima nel mantenere la compattezza della propria finzione. Aiutata, e non poco, da Kazimierz Brandys, il suo amico geniale.