Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2019
Le aziende italiane a controllo cinese
«Se non ci avessero comunicato il passaggio di proprietà, non ci saremmo nemmeno accorti che i nuovi titolari sono cinesi». Primiano Biscotti è segretario della Fim Abruzzo Molise. Il colosso dell’acciaio Baosteel (oggi Baowu) ha rilevato due anni fa la piemontese Emarc che a Lanciano, in provincia di Chieti, stampa lamiere per la Sevel. «Non abbiamo mai visto un cinese – dice il sindacalista – e dall’acquisizione non ho visto grandi stravolgimenti in fabbrica». I cinesi non avranno toccato nulla nell’organizzazione, ma l’interesse è tutt’altro che di facciata: ora Baomarc si prepara a rilevare, nella strategica filiera della componentistica auto, anche l’ex Honeywell di Atessa, sempre a Chieti.
Sono circa 300, secondo i dati dell’ultimo rapporto dell’Osservatorio Italia-Cina, i gruppi cinesi presenti in Italia con almeno un’impresa partecipata. Le controllate, secondo la banca dati Reprint del Politecnico di Milano, sono più di 600. Eppure, soprattutto per i lavoratori, si tratta ancora di una presenza silenziosa, con un impatto poco rilevante all’interno delle fabbriche, sull’organizzazione del lavoro e nella scala valoriale trasmessa ai blue collar. Un approccio soft e rispettoso che però non esclude grande determinazione nel perseguire obiettivi industriali e di sviluppo, come confermano negli ultimi anni, oltre al caso Baomarc, anche gli esempi di Ferretti, di Arbos (per citarne alcuni) e più recentemente della ex Sgl Carbon, in Umbria, dove il nuovo «padrone cinese», salutato con entusiasmo, sta mantenendo gli impegni assunti in termini di occupazione e rilancio di una realtà in crisi fino a poco tempo fa. «In fase di acquisizione i cinesi possono apparire eccessivamente meticolosi – spiega Giampiero Castano, già responsabile dell’unità di crisi del Mise -, ma poi, quando vedono il traguardo, sanno accelerare e agire con concretezza nelle fasi più operative». Un approccio confermato dall’operazione con cui l’estate scorsa la proprietà di Candy è stata ceduta ad Haier. «Hanno avuto grande velocità decisionale – ha spiegato l’ex ad Beppe Fumagalli -, nonostante sia una realtà collettiva detenuta da 70mila persone».
A valle dell’acquisizione il ceo e l’hr manager cinesi hanno poi sottoposto i manager di Brugherio a una fitta sequenza di interviste «one to one» prima di arrivare alla decisione di lasciare inalterata tutta la prima linea di comando. Anche questo, come nel caso di Pirelli, è un tratto tipico nell’approccio cinese all’M&A. Ed è proprio la prima linea manageriale, oggi, che sperimenta sulla propria pelle cosa significhi lavorare con una proprietà cinese. E se come detto la «presa cinese» sulla fabbrica sembra al momento non lasciare tracce rilevanti, per i dirigenti costretti a interfacciarsi con il board cinese (a colpi di videochiamate e voli intercontinentali) è esattamente l’opposto. «Le aziende italiane con proprietà cinese hanno bisogno di persone che conoscano la situazione socio-politica cinese, la cultura, l’economia. Non è, o non è più, una questione di lingua» spiega Francesco Boggio Ferraris, direttore della Scuola di formazione permanente della Fondazione Italia Cina. Differenze culturali che, per esempio, possono impattare sulla programmazione aziendale. «Per un capo cinese la strategia ha sempre un orizzonte di medio-lungo termine – prosegue Boggio Ferraris -. E per lungo termine si intende realmente lungo termine, concetto spesso difficile in Italia, dove siamo abituati a ragionare in un’ottica emergenziale». Altro forte fattore di contrasto è l’approccio al problem solving. «Qui in Italia si esalta il genio italico e la creatività – prosegue Boggio Ferraris -, ma chi lavora con i cinesi deve sapere che non c’è spazio per l’improvvisazione. Una nazione abitata da un miliardo di persone è naturalmente legata ai big trend, ai numeri». Il «padrone cinese» ha mostrato una profonda comprensione delle regole italiane, non intervenendo nella gestione degli orari di lavoro nonostante visioni profondamente diverse («il part time è un concetto lunare per loro» spiega l’esperto) e rispettando quasi tutti i tratti della nostra cultura (la fedeltà aziendale, per esempio, non è un valore per i cinesi che, anzi, incentivano l’autoimprenditorialità). Una fiducia che però non ha potuto impedire in alcune situazioni, frizioni tra i due mondi. «La proprietà orientale tende ad affiancare alla gestione locale figure secondarie cinesi, uomini di fiducia – prosegue Boggio Ferraris, consiglieri molto ascoltati, che possono creare un elemento che spesso, secondo le casistiche raccolte dalla Fondazione, risulta distorsivo nel rapporto con la casa madre». Per non parlare del rischio reputazionale. «Il capo non può perdere la faccia – spiega -, e questo vale nel rapporto con la propria controllante. Ma nella cultura cinese è una preoccupazione anche dei dipendenti: non è raro che un dipendente se ne vada perchè ritiene che il capo non sia sufficientemente leader, è successo anche a dipendenti cinesi di realtà italiane».