21 marzo 2019
Biografia di Marcello De Vito
Simone Canettieri per Il Messaggero
Un bel giorno, era il 25 aprile del 2012, decise che era arrivato il momento. Sì, voleva iniziare a battersi il petto da corazziere per l’onestà, lasciandosi sotto i tacchi le vecchie simpatie per Forza Italia. E Marcello De Vito scelse il bersaglio più grosso di Roma. Macché: d’Italia. «Sono diventato del M5S – racconterà – quando ho ascoltato il discorso del presidente della Repubblica: ha detto non si può prescindere dai partiti e che bisogna dividere la politica dall’anti-politica. Una follia!». Le frasi di Giorgio Napolitano, disse presentandosi al meet-up del suo quartiere, a Talenti, erano «incostituzionali». E così questo avvocato, cresciuto nel Napoletano e che aveva studiato e comprato i primi abiti di sartoria a Roma, capì di «aver visto la luce», come Elwood dei Blues Brothers. Voleva «dare una mano», era il periodo post-Parma, quello della purezza a tutti costi. E chi meglio di Roberta Lombardi, che all’epoca già conosceva Beppe Grillo, per buttarsi nella mischia? Dopo meno di un anno, era febbraio, De Vito, già per tutti «Marcellone» per via del fisico da gladiatore sempre in lotta con i chili di troppo, diventò, per auto-proclamazione, «un avvocato a Cinque Stelle». In quanto delegato alla legittimità delle firme per le regionali. Il trampolino, che gli consentirà di candidarsi a sindaco di Roma. Ed eccolo sul palco di piazza del Popolo, con la sua simpatica voce nasale, per lo Tsunami tour 2013, al fianco di Beppe, ma anche di Ale (Di Battista) e Roberta (Lombardi) e tutti gli altri ragazzi da poco entrati in parlamento. Quella sera, sul palco, in un angolo farà capolino, presentandosi, un po’ intimidita, anche una giovane donna minuta: «Ciao a tutti, mi chiamo Virginia Raggi». Quelle elezioni videro trionfare Ignazio Marino, ma il M5S alla fine ne infilò 4 di consiglieri. E a De Vito toccarono i galloni di capogruppo. Una tribuna d’oro per godersi Mafia Capitale I e II, portando in Campidoglio invece dei pop-corn, «le arance per i carcerati del Pd». Una posizione buona per sporgere denunce e controdenunce per i famigerati scontrini di Marino, per urlare in faccia all’allora consigliere radicale, ora deputato, Riccardo Magi di «vergognarsi» per chiedere al prefetto lo scioglimento del Comune per mafia. Ma è nel 2016 che avviene la svolta. De Vito capisce, e lo dice ora nelle intercettazioni, che dopo l’harakiri del Pd per vincere «basta il Gabibbo».
Peccato, però, che ci sia da superare il test interno del blog. Ed è Virginia Raggi il volto prescelto da Gianroberto Casaleggio, perché lui ormai ha «le stigmate del perdente». Poco prima del voto on line circola tra gli attivisti uno strano dossier su alcuni favori che De Vito avrebbe fatto a un imprenditore: «Mi vogliono far fuori». Ma ormai era andata. E in quel momento che si spacca il gruppo: da una parte Raggi- sindaca; dall’altra Lombardi, la «Faraona», e lui «la Sfinge», mister preferenze (6.500). Racconterà al Messaggero dopo il primo scandalo per l’arresto di Marra: «Sarei dovuto diventare sindaco, ma mi hanno fatto fuori con un dossier. E queste sono le conseguenze».
Per la prima parte della consiliatura lui – «alto, grosso e ortodosso» – si mette a fare interdizione alla sindaca sempre più nei guai. Dall’alto dello scranno del consiglio comunale, gestisce le nomine e i rapporti, dice frasi smozzicate ai cronisti: «Questa è negata». E ce l’ha con la Raggi. Nel frattempo ha piazzato la moglie, Giovanna Tadonio, come assessore nel III municipio, feudo di famiglia. In compenso sempre nel 2018 l’holding De Vito chiude il cerchio con l’elezione a consigliere regionale della sorella, Francesca e con un paio di candidati per le politiche (tutti non eletti, come Mauro Vaglio, presidente dell’ordine degli avvocati). «Sòrema è forte», dice Marcellone. Ma anche qui per lui c’è una beffa: a conti fatti, lei guadagna più di lui. Umorale, muto ma dagli occhi tristi, fissato con le telefonate via WhatsApp per «non farmi intercettare», gli incontri segreti a piazza Margana, le partite della Roma (durante un viaggio della memoria diede buca all’incontro dell’ex deportato Sami Modiano per il match dei giallorossi) e la soddisfazione di dire: «Quello l’ho messo lì io, e risponde a me». L’arresto di Luca Lanzalone segna la sua eclissi. Da quel momento De Vito scompare dal teatrino della politica. Venerdì scorso era alla prima dell’Opera – e Di Maio lo presenta in pompa magna al ministro Tria: «Lui è il nostro presidente» – martedì mattina si è affacciato a Rebibbia per i padri separati. Ieri è entrato a Regina Coeli.
Un bel giorno, era il 25 aprile del 2012, decise che era arrivato il momento. Sì, voleva iniziare a battersi il petto da corazziere per l’onestà, lasciandosi sotto i tacchi le vecchie simpatie per Forza Italia. E Marcello De Vito scelse il bersaglio più grosso di Roma. Macché: d’Italia. «Sono diventato del M5S – racconterà – quando ho ascoltato il discorso del presidente della Repubblica: ha detto non si può prescindere dai partiti e che bisogna dividere la politica dall’anti-politica. Una follia!». Le frasi di Giorgio Napolitano, disse presentandosi al meet-up del suo quartiere, a Talenti, erano «incostituzionali». E così questo avvocato, cresciuto nel Napoletano e che aveva studiato e comprato i primi abiti di sartoria a Roma, capì di «aver visto la luce», come Elwood dei Blues Brothers. Voleva «dare una mano», era il periodo post-Parma, quello della purezza a tutti costi. E chi meglio di Roberta Lombardi, che all’epoca già conosceva Beppe Grillo, per buttarsi nella mischia? Dopo meno di un anno, era febbraio, De Vito, già per tutti «Marcellone» per via del fisico da gladiatore sempre in lotta con i chili di troppo, diventò, per auto-proclamazione, «un avvocato a Cinque Stelle». In quanto delegato alla legittimità delle firme per le regionali. Il trampolino, che gli consentirà di candidarsi a sindaco di Roma. Ed eccolo sul palco di piazza del Popolo, con la sua simpatica voce nasale, per lo Tsunami tour 2013, al fianco di Beppe, ma anche di Ale (Di Battista) e Roberta (Lombardi) e tutti gli altri ragazzi da poco entrati in parlamento. Quella sera, sul palco, in un angolo farà capolino, presentandosi, un po’ intimidita, anche una giovane donna minuta: «Ciao a tutti, mi chiamo Virginia Raggi». Quelle elezioni videro trionfare Ignazio Marino, ma il M5S alla fine ne infilò 4 di consiglieri. E a De Vito toccarono i galloni di capogruppo. Una tribuna d’oro per godersi Mafia Capitale I e II, portando in Campidoglio invece dei pop-corn, «le arance per i carcerati del Pd». Una posizione buona per sporgere denunce e controdenunce per i famigerati scontrini di Marino, per urlare in faccia all’allora consigliere radicale, ora deputato, Riccardo Magi di «vergognarsi» per chiedere al prefetto lo scioglimento del Comune per mafia. Ma è nel 2016 che avviene la svolta. De Vito capisce, e lo dice ora nelle intercettazioni, che dopo l’harakiri del Pd per vincere «basta il Gabibbo».
Peccato, però, che ci sia da superare il test interno del blog. Ed è Virginia Raggi il volto prescelto da Gianroberto Casaleggio, perché lui ormai ha «le stigmate del perdente». Poco prima del voto on line circola tra gli attivisti uno strano dossier su alcuni favori che De Vito avrebbe fatto a un imprenditore: «Mi vogliono far fuori». Ma ormai era andata. E in quel momento che si spacca il gruppo: da una parte Raggi- sindaca; dall’altra Lombardi, la «Faraona», e lui «la Sfinge», mister preferenze (6.500). Racconterà al Messaggero dopo il primo scandalo per l’arresto di Marra: «Sarei dovuto diventare sindaco, ma mi hanno fatto fuori con un dossier. E queste sono le conseguenze».
Per la prima parte della consiliatura lui – «alto, grosso e ortodosso» – si mette a fare interdizione alla sindaca sempre più nei guai. Dall’alto dello scranno del consiglio comunale, gestisce le nomine e i rapporti, dice frasi smozzicate ai cronisti: «Questa è negata». E ce l’ha con la Raggi. Nel frattempo ha piazzato la moglie, Giovanna Tadonio, come assessore nel III municipio, feudo di famiglia. In compenso sempre nel 2018 l’holding De Vito chiude il cerchio con l’elezione a consigliere regionale della sorella, Francesca e con un paio di candidati per le politiche (tutti non eletti, come Mauro Vaglio, presidente dell’ordine degli avvocati). «Sòrema è forte», dice Marcellone. Ma anche qui per lui c’è una beffa: a conti fatti, lei guadagna più di lui. Umorale, muto ma dagli occhi tristi, fissato con le telefonate via WhatsApp per «non farmi intercettare», gli incontri segreti a piazza Margana, le partite della Roma (durante un viaggio della memoria diede buca all’incontro dell’ex deportato Sami Modiano per il match dei giallorossi) e la soddisfazione di dire: «Quello l’ho messo lì io, e risponde a me». L’arresto di Luca Lanzalone segna la sua eclissi. Da quel momento De Vito scompare dal teatrino della politica. Venerdì scorso era alla prima dell’Opera – e Di Maio lo presenta in pompa magna al ministro Tria: «Lui è il nostro presidente» – martedì mattina si è affacciato a Rebibbia per i padri separati. Ieri è entrato a Regina Coeli.
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Gian Antonio Stella per il Corriere della Sera
Le arance! Chissà se certe anime pure grilline, furenti per l’abietta visita in Campidoglio dei «neri» di CasaPound con le arance per Marcello De Vito, hanno rivissuto ieri il giorno in cui quella visita la fecero loro. Era il 3 dicembre 2014 e a portare beffardi gli agrumi, spiegando che si trattava di un dono simbolico per i carcerati, c’erano Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e lui, il presidente del consiglio comunale ora a Regina Coeli. Venuti a chiedere le istantanee dimissioni di Ignazio Marino. Chi di arance ferisce, di arance perisce.
Era proprio il grillino appena ammanettato e inchiodato da quella telefonata sui quattrini («distribuiamoceli, questi»), uno dei più accaniti fustigatori dei cattivi costumi capitolini. Basti risentire il suo spot elettorale: «Le mani libere del Movimento 5 Stelle rappresentano un valore importantissimo per Roma. Per la prima volta possiamo andare a colpire gli sprechi, i privilegi e la corruzione con cui i partiti di destra e di sinistra, indifferentemente, hanno campato per anni sulle spalle dei cittadini romani». O rileggere alcuni dei tweet lanciati in questi anni, soprattutto dal 2013 (quando fu il candidato a sindaco del MoVimento) al 2016, quando corse alle nuove «comunali» al fianco, si fa per dire, di Virginia Raggi: «Rapporto choc: corruzione in ogni settore! Ecco perché servono le nostre mani libere!», «Spazzeremo via sprechi privilegi e corruzione», «Mafia capitale, corruzione, conti fuori controllo, disservizi… E vogliamo anche organizzare le Olimpiadi?!» «Ecco cosa lasciano il Pd e il Pdl nelle municipalizzate di Roma: sprechi, privilegi, corruzione e Parentopoli!» «Buche a Roma. Tangenti e intercettazioni: tutti corrotti!».
Tutti meno lui, ovvio. Rigido. Rigidissimo. Un gendarme dell’ortodossia. Anche se, a proposito di Parentopoli, non è mancato chi gli ha rinfacciato la carriera parallela della sorella Francesca De Vito. Eletta consigliera l’anno scorso alla Regione Lazio (indovinate con chi?) facendo immaginare ai più maliziosi una sorta di zuccherino per addolcire la sua grinta combattiva contro Virginia Raggi, vista in famiglia come una specie di usurpatrice.
Dice tutto uno sfogo pubblicato su Facebook alla fine di agosto 2016. Siamo nel pieno delle risse intestine sulla sindaca e il suo cerchio magico. Cui viene attribuito a torto o a ragione, citiamo l’Ansa, un «presunto dossier contro De Vito», su possibili irregolarità in una pratica di sanatoria, «che a fine 2015 avrebbe danneggiato la sua possibile candidatura a sindaco di Roma». Vero? Falso? Certo è che Francesca, sventagliando raffiche di punti esclamativi, attacca: «Adesso basta!!! Dovevamo dimostrare la differenza e la non continuità con il passato e io da attivista lo pretendo!!! (…) Che Virginia abbia sentito il bisogno di circondarsi di “persone di fiducia” ci può anche stare... malgrado alcune scelte lascino il boccone amaro in bocca a molti.... che poi però ogni persona di fiducia, compreso Daniele (Frongia, ndr) debba circondarsi di “amichetti di merende”...questo diventa inaccettabile!!!!».
Quindi (punteggiatura e stile sono a carico suo) la consigliera regionale insiste: «Nessuno ha mai pensato di arricchirsi con il movimento né tanto meno di fare “piaceri” a qualcuno. ...non vi permettete di cominciare voi... non ce lo meritiamo e non se lo merita Roma. Ciò che sta avvenendo è inaccettabile!!...e noi saremo il vostro peggior nemico!!» (…) preferisco perdere e poter continuare a criticare gli altri piuttosto che vincere e dover ingoiare simili bocconi!!!!».
Un capolavoro. Che convince i compagni di partito, un anno e mezzo dopo, a far spazio alla fumantina parente elevandola a Vice Presidente della Commissione Sviluppo economico e attività produttive regionale. Come se la caverà, vedremo. Chi difficilmente riavremo occasione di vedere all’opera, dato l’«infortunio giudiziario», è proprio il fratello, Marcello. Il quale, certo nel 2013 di esser destinato alla vittoria dato il successo grillino alle Politiche nei collegi capitolini, diede al nostro Fabrizio Roncone, per Style, un’intervista traboccante di scenari luminosi.
Spiegò d’aver deciso di far politica spinto da Beppe Grillo: «Ognuno deve prendere una parte della propria vita e dedicarla agli altri». D’esser nato a Monte Sacro. Di avere una utilitaria che però non usava: meglio i mezzi pubblici. «Quando sarò sindaco perciò», promise, «è chiaro che arriverò in ufficio con il bus, come un cittadino qualsiasi. Anzi, il viaggio sarà occasione per ascoltare richieste, lamentele, suggerimenti». Niente auto blu e «anche allo stadio pagherò il biglietto».
Respinta la domanda su chi votasse prima («Preferirei che il mio vecchio orientamento politico restasse segreto»), rivelò volentieri il programma, una volta arrivato a comandare in Campidoglio: rivedere tutti i conti in rosso lasciati da Gianni Alemanno e dai sindaci precedenti, cambiare l’Ama (rifiuti), cambiare l’Acea (acqua ed energia), far sì che «quelle società tornino a esser pubbliche» e «rivoluzionare la viabilità» puntando su bus e tram. «Ma non basta», aggiunse, «Abbiamo intenzione di attuare un piano per realizzare 1.000 chilometri di piste ciclabili». Mille. Su e giù pei colli…
E poi promise «una raccolta differenziata al 60%» e senza inceneritori e discariche e un «formidabile attacco» all’abusivismo edilizio e «meno vigili dietro le scrivanie e più vigili per strada»… «Un programma ambizioso», gli obiettò Roncone. «Noi vogliamo, letteralmente, far svoltare Roma». Già che c’era, precisò anzi che i Fori Imperiali e Trastevere andavano pedonalizzati. Ma tutto, certo, sarebbe stato deciso insieme con i cittadini: «Le sedute del consiglio comunale saranno tutte date in streaming». Trasparenza, trasparenza, trasparenza…
E come va a finire, tutto questo? Col giustizialista giustiziato, il giorno della copertura in Senato a Matteo Salvini, senza un filo di dubbio garantista…