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 2019  marzo 20 Mercoledì calendario

Gianrico Carofiglio, da tre settimane primo in classifica con «La versione di Fenoglio» (Einaudi Stile libero)

Gianrico Carofiglio, scrittore, è nato a Bari.
«Il libro nasceva come un saggio, diciamo come un manuale di tecnica di indagine. Per riflettere su un metodo ma anche su come porsi, in generale, rispetto alla vita. Avevo anche pensato a una forma teatrale, con un dialogo tra due personaggi astratti: ma c’era il rischio mortale del teatro pedagogico. Insomma, il lavoro mi appariva, non saprei ora dire veramente perché, tutto fuori posto, disordinato. Mi dicevo: questa è la volta che davvero non ce la faccio. Poi, misteriosamente, è riemerso in me il personaggio del maresciallo Pietro Fenoglio e così... tac-tac-tac... tutto si è rimesso magicamente a posto». Gianrico Carofiglio pilota da tre settimane la classifica dei libri più venduti con il suo La versione di Fenoglio (Einaudi Stile libero). Merito, dice lui, del nuovo incontro col suo maresciallo Fenoglio, alle soglie della pensione, con un problema all’anca e quindi bisognoso di riabilitazione. Condividerà le ore di esercizi col giovane Giulio, poco più che ventenne, alla ricerca di una strada nella vita, disposto ad ascoltare le storie delle sue indagini.
La pedagogia a teatro, lei dice, è un peccato mortale. Ma questo libro non è in qualche modo «pedagogico»?
«Fenoglio è pedagogico verso il ragazzo, certo. Ma non verso il lettore. L’assenza di pedagogia, di compiacimento e di giudizio sono le basi di un buon libro».
Domanda ovvia: perché tanto successo per «La versione di Fenoglio»? Ha trovato una chiave?
«Non sono capace di rispondere e non sono sicuro di voler imparare a farlo. Giorni fa una importante scienziata, con cui presto organizzeremo un seminario sul parallelismo tra metodo scientifico e metodo investigativo, mi ha detto: di solito, con i tuoi libri, dopo due pagine mi sembra di stare a casa, stavolta ho dovuto mantenere la vigilanza per riflettere sul metodo. Bel complimento. Le due questioni, scienza e indagini, sono accomunate dalla necessità di non lasciarsi intrappolare dalle proprie ipotesi».
Dice Fenoglio: «Se hai una buona ipotesi investigativa, ma prendi in considerazione solo quello che la conferma, finirai con l’ignorare tutto il resto. Non “vedrai” tutto il resto». È il beneficio del dubbio?
«Molto di più. Il beneficio è una prospettiva giusta: ma il dubbio è essenziale come strumento metodico di lavoro. È un errore catastrofico pensare di non poter sbagliare. Mettendo nel conto l’errore, si impara in tutti i campi. Lo stesso Sherlock Holmes sa che per arrivare alla soluzione occorre prevedere errori… per cercare qualcosa di ignoto si procede per tentativi, proprio perché è ignoto».
In Italia escono bellissimi polizieschi, gialli, thriller. Eppure, si continua a considerare il genere «meno importante» rispetto ad altre opere magari meno avvincenti, addirittura noiose, però giudicate «letterarie». Perché?
«Ho una sola risposta alla domanda, quella che diede Chesterton. Ci sono due categorie di libri: quelli scritti bene e quelli scritti male. Per quelli scritti bene non mi riferisco solo all’italiano: parlo di libri capaci di dire la verità sulla condizione umana. I libri scritti male, nel migliore dei casi, offrono un qualche intrattenimento: ma non contengono nessuna verità, sono composti di materiale stereotipo o di seconda mano. Dopo dieci minuti, non ti ricordi niente perché è finita l’esperienza del puro consumo. Quelli scritti bene ti lavorano dentro a lungo, quando li hai finiti».
Riceve dai suoi lettori segnali di questo tipo?
Trappole retoriche
Giorni fa in un romanzo ho trovato otto metafore in una sola pagina. La metafora è una spezia orientale: un pizzico piace, l’eccesso disgusta
«Parlare di sé è, nel migliore dei casi, odioso. Ma sono indubbiamente contento rispetto ad alcuni giudizi. Una ragazza di 19 anni mi ha appena scritto: “Ti darò del tu, ho finito il tuo libro e da giorni penso di scriverti, hai lasciato un segno indelebile nella mia vita, sono sospesa e meravigliata dalle tue parole”. Oppure: ‘Leggere i tuoi libri è come bere buon vino bianco, magari ti concedi un bicchiere di più pensando che non ci saranno problemi, ma quando ti alzi da tavola ti accorgi che ti tremano le gambe”. Cito questi giudizi proprio perché mostrano come un libro possa “lavorare dentro”. Sono bellissimi complimenti».
In Italia si legge poco. C’è una formula per uscire dalla crisi?
«Solo una: più libri scritti bene aiuterebbero. Molti autori sedicenti letterari adottano un linguaggio deliberatamente ostile verso il lettore, quasi che l’incomprensibilità sia sinonimo di letterarietà. Flaiano diceva che, in Italia, la linea più diretta tra due punti è l’arabesco. Invece è retta».
Cosa pensa di questo fenomeno?
«L’oscurità, quando non sia indispensabile perché ovviamente non tutto è chiaro e piano, è una malattia infantile della letteratura italiana: ancora più grave quando hai settant’anni. Giorni fa, non rivelerò mai il nome, ma in un romanzo ho incontrato, in una sola pagina, ben otto metafore. Dico: in una sola pagina. La metafora è come una spezia orientale: un pizzico va bene, l’eccesso disgusta».
Dunque, occorre una lingua più «facile»?
«Attenzione. Le questioni complesse possono condurre su territori impervi. Ma un conto è la complessità, quando sia necessaria. Altra questione è l’ostentazione dell’oscurità».
Lei, da ex magistrato, si batte da tempo anche per un’altra oscurità linguistica, quella delle sentenze. Quali sono le ragioni di questo fenomeno?
«Tre, in ordine crescente di gravità. Prima ragione: la pigrizia del gergo, essenziale per essere accettati nella corporazione dei giuristi e che esenta dal dovere della precisione. Seconda: il narcisismo, peccato comune appunto a molti scrittori, il compiacimento per l’arabesco di Flaiano… Simenon suggeriva di cancellare senza pietà quando, rileggendo uno scritto, ci si imbatteva in parole troppo ricercate o in costruzioni inutilmente ardite. Terza, la più grave: il potere che deve restare incomprensibile e iniziatico per perpetuarsi. Un approccio che contrasta radicalmente col diritto democratico».
Confronti d’autore
Camilleri? Ha una capacità di scrittura quasi soprannaturale ma non potremmo essere più diversi. Il dialetto? Amo la nitidezza dell’italiano
Lei, Carofiglio, «è» più Fenoglio o «è» più il giovane Giulio, in questo libro?
«A me piace sempre giocare con due o più me stessi possibili. Nel racconto online “La forma delle nuvole” racconto la storia di uno scienziato che abbandona il proprio lavoro per andare a lavorare in una società finanziaria dove guadagnerà dieci volte di più. Un signore anziano gli chiede un passaggio in auto, e comincia a dargli consigli. Io sono entrambi. È così, nell’ultimo libro, il vecchio sbirro sono io e il ragazzo che ascolta sono io».
Domanda d’obbligo: Camilleri, con Montalbano, è ormai l’archetipo italiano del genere poliziesco. Che rapporto ha con quel modello?
«Camilleri è uomo di penetrante intelligenza, ha inventato una lingua con una capacità di scrittura direi soprannaturale. Detto questo, non potremmo essere più diversi».
Mai tentato dall’uso del dialetto?
«No. Ho il gusto per l’italiano nitido. A proposito di metafore, se dovessi usarne una metallurgica per spiegarmi, direi che penso a un italiano leggero ma fortissimo e resistente come il titanio. L’italiano è una bellissima lingua, quando viene utilizzata nel modo giusto».
Cosa accomuna e cosa divide i due suoi personaggi ricorrenti, l’avvocato Guerrieri e il maresciallo Fenoglio?
«Hanno gusti, vite, mestieri e attitudini completamente diversi. Ma sono accomunati da un tormentoso senso morale, dalla percezione della propria fallibilità».
Un modo per sperimentare?
Le definizioni
Si continuano a ritenere i gialli un genere minore? Chesterton diceva che ci sono solo due categorie di libri: scritti bene e scritti male
«Nel raccontare storie, la sola idea di poter “sperimentare” con la scrittura mi angoscia. Mi piace, questo sì, esplorare. È altra cosa».
Cinque milioni e più di copie vendute nel mondo, traduzioni in ventotto lingue. Vertigine da successo? Come si mantiene il distacco da tutto questo?
«Un antidoto sicuro al rischio del delirio, che può essere sempre in agguato, è il senso dell’umorismo su di sé, cioè rammentare il nostro lato ridicolo. Io ho parecchi aspetti ridicoli, alcuni lo sono persino troppo. Ma certo non li racconterò qui…».