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 2019  marzo 20 Mercoledì calendario

Cotroneo racconta la sua esclusione dallo Strega

Lo scrittore risponde all’allarme sulla qualità dei libri lanciato dal presidente della Fondazione Bellonci Giovanni Solimine




Se sei il presidente della Fondazione Bellonci, che tra le altre cose organizza il premio Strega, non puoi parlare di "testi acerbi", con "sovrabbondanza di schemi", e lamentarti della letteratura contemporanea italiana, sostenendo che non è all’altezza delle aspettative.
Giovanni Solimine avrebbe forse il dovere di andare oltre, e chiedersi se è davvero così, o se invece le cose stanno in tutt’altro modo.
Mi tocca una premessa: il mio romanzo Niente di personale era tra i 57 che sono stati segnalati per il premio Strega. Non è entrato neppure tra i dodici candidati, ma non è questo il punto. Purtroppo non ho il privilegio di essere acerbo, data la mia età, e neppure di sovrabbondare di schemi, visto che non ne ho mai avuto uno in trent’anni. Inoltre Solimine parla del vizio delle scuole di scrittura, da me mai frequentate, e del cattivo lavoro nelle case editrici, editing malmessi, superficiali, e via discorrendo: e non è sempre vero.
Ma questo è il risultato di una letteratura pubblicata, diffusa e pompata a dismisura nell’ultimo decennio. E se presiedi un’istituzione come la Fondazione Bellonci come minimo devi fare un mea culpa. E solo dopo immaginare un eventuale j’accuse. La situazione della lettura in Italia è drammatica, come è drammatico il calo di copie vendute dei romanzi negli ultimi cinque anni. E perché è accaduto questo? Perché «i romanzi sarebbero incentrati su di sé», nel senso degli autori stessi, come dice Solimine? Per niente. È un secolo, almeno da Proust in poi, che avviene questo. E nessuno si è mai preoccupato di una cosa del genere. Oltretutto non è neppure così vero, visto che le librerie sono invase da autori che scrivono con successo e profitto gialli di ogni genere, dove il sé è trasferito a improbabili commissari, ispettori e investigatori. Il punto quale sarebbe? Quello che i libri hanno una lingua modesta, costruzioni sintattiche elementari, e tendenzialmente una leggibilità banale condita di qualche neologismo e metafore ardite?
È il sistema culturale che ha portato a questo. Colpa degli editori che pensano soprattutto a vendere.
Colpa dei critici, che in realtà non sono dei critici, e fanno gli arbitri e i giocatori al tempo stesso. E colpa anche dello Strega, che negli ultimi dieci anni ha imposto libri che non resteranno nel nostro cuore come indimenticabili. E che non sono scritti bene, ma sono scritti come si pensa di debba scrivere: con una patina plastificata che è la stessa che avvolge i nuovi volumi sui banchi delle librerie. Nessuno la toglie quella plastica, conserva meglio e tiene assieme storie che altrimenti sarebbero sgangherate.
La maggior parte degli autori che si sono presentati quest’anno allo Strega forse non sanno chi sia Roberto Longhi o Luigi Baldacci, e neppure Cesare Garboli. Perché i tempi sono cambiati, e noi tutti avremmo dovuto proteggere i più giovani da questo tempo balordo: che rende tutto facile, che trasforma autori poco più che esordienti in classici della letteratura con gli onori già in tasca prima di scrivere i nuovi libri.
Quando invece i romanzi si misurano anche in quantità di pagine scritte, oltre che in qualità di narrazione e di uso della lingua.
Sarebbe giusto ricordarsi dei classici dell’Ottocento, ma anche di autori che negli ultimi trent’anni hanno dimostrato libro dopo libro che la letteratura è un mappamondo e non una carta velina su cui poggiare velleità e ambizioni che non durano niente.
Una letteratura degna di questo nome vuole appoggi coraggiosi, non mode del momento. Ma questa è una società letteraria che dimentica i libri veri perché troppo impegnata a cercare miracoli editoriali nei santuari culturali sparsi per il Paese. E lo Strega è uno di questi santuari. Cosa significa essere schiavi di modelli americani, come dice Solimine, quando la maggior parte degli scrittori italiani contemporanei legge abitualmente quasi solo l’italiano dei traduttori?
E avrebbero difficoltà a capire la lingua de Gli indifferenti di Moravia. Però i nuovi scrittori sanno tutto del plot. E sognano il film tratto dal libro ancora prima di scriverlo. E chi ha diffuso questo? Chi ha spiegato loro che il romanzo ha gli snodi, e che devono essere messi nei punti giusti? Quale editore oggi ha il coraggio di dire a un autore: scrivi quello che vuoi, ma con una raccomandazione, voglio riconoscere la tradizione letteraria nelle tue pagine, Svevo e Fenoglio, Manganelli e Gadda?
Non lo avete fatto neanche voi, caro Solimine, e mi conceda questo ultimo riferimento personale: non lo avete fatto neppure con buona parte dei dodici che avete selezionato. Molti di loro tutti uguali, da scuola di scrittura, vittime di una tradizione che sono incapaci di maneggiare, ma soprattutto di una lingua frettolosa che imita i dialoghi delle serie televisive. Tutto questo lo pagheranno i lettori, che stanno subendo una mutazione antropologica e presto non sapranno più riconoscere un prodotto letterario da un libro vero. E dunque non sarebbe il caso di cominciare da ora a lavorare in un modo nuovo? Ma soprattutto, per citare Primo Levi, uno che lo Strega lo ha vinto esattamente quarant’anni fa: se non ora quando?