19 marzo 2019
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Biografia di Spike Lee
Spike Lee (Shelton Jackson Lee), nato ad Atlanta (Georgia, Stati Uniti) il 20 marzo 1957 (62 anni). Regista. Sceneggiatore. Produttore. Attore. Tra i vari riconoscimenti ricevuti: un premio Oscar alla carriera (2016) e uno alla miglior sceneggiatura non originale per BlacKkKlansman (2019); un Gran premio al Festival di Cannes per BlacKkKlansman (2018); una menzione d’onore al Festival di Berlino per Bus in viaggio (1997). «Il cinema per me è un mezzo per far partire un dibattito. Se la gente si alza dalla sala e parla di quello che ha visto, e pensa, e discute, beh, allora io come regista sento di aver raggiunto il mio obiettivo» • «Sono un nero privilegiato, cresciuto con un padre jazzista, che mi portava ai suoi concerti, anche quando avevo cinque anni. Mi ha trasmesso il ritmo dei miei film con le dissonanze e le sonorità della sua musica. Mia madre, insegnante, mi ha fatto leggere sin da bambino tanti libri. Grazie a lei ho amato autori come Dickens. Mamma mi chiedeva di essere sempre il più bravo al college, dove mi sono laureato in Comunicazioni di massa, ma è l’essere cresciuto a Brooklyn che mi ha spinto a capire il tessuto sociale e le disuguaglianze di cui è fatto il mondo» • «In inglese “spike” sta per “chiodo”, punta sottile quanto resistente; ma per estensione anche “magro”, e perfino “ragazzaccio”. Non stupisce che sia stato il nomignolo dell’adolescente Shelton Jackson Lee, […] ribattezzato “Spike” dalla madre Soledad dopo infinite scenate per il carattere ribelle di quel figlio amatissimo, primo di cinque tra fratelli e sorelle, cresciuto tra la Georgia, Chicago e Brooklyn nei quartieri afroamericani. Il padre Bill, musicista jazz, influenzerà a lungo la vita artistica del figlio, finché verrà allontanato dopo l’ennesimo arresto per possesso di droga. […] Voleva diventare giocatore di baseball, ma lo scarso talento e il fisico esile gli chiusero tutte le porte. […] Appassionato di letteratura e diplomato al Morehouse College di Atlanta, roccaforte della cultura afroamericana in uno degli stati “sudisti”, Spike debutta qui con un corto (poi rinnegato) scritto insieme al suo più caro amico, Monty Ross (diverrà il suo produttore), e vi torna poi come regista della cerimonia di fine anno scolastico. “Fu in quell’occasione – ha raccontato – che imparai a dirigere un gran numero di persone e mi venne davvero voglia di stare dietro a una macchina da presa”. Teoria e pratica del mestiere li apprende al Clark College e poi alla New York University, dove incontra il suo futuro direttore della fotografia, Ernest Dickerson, e il primo regista di cui riconosce una decisiva influenza, Jim Jarmusch. […] "Quando all’università vidi Stranger Than Paradise e Jarmusch ebbe uno straordinario successo – ha detto –, mi resi conto all’improvviso che realizzare un film era davvero una cosa possibile anche per me". Il debutto coincide così con il terzo anno di università e la tesi di laurea: Joe’s Bed, costato 10.000 dollari (in buona parte racimolati dalla nonna Zimmie), ambientato in un salone da barbiere che copre un traffico di scommesse clandestine e salutato come una rivelazione dalla critica newyorkese, tanto da meritarsi l’invito alla prestigiosa rassegna del MoMa "New Films, New Directors" e poi al Festival di Locarno. Dopo una serie di passi falsi e tentativi abortiti, Spike Lee fa il suo ingresso ufficiale nell’industria cinematografica nel 1984: a 27 anni fonda la sua casa di produzione "40 Acres & a Mule" con cui due anni dopo produrrà il suo primo vero successo, Lola Darling. Girato in bianco e nero in soli 12 giorni, interpretato, montato e prodotto in prima persona, il film è una travolgente commedia che gli varrà la definizione di "Woody Allen nero" sul New York Times. Il film sbarcò poi in Europa al Festival di Cannes (Prix de jeunesse) e fece del personaggio di Spike Lee, Mars Blackmon, un’icona tra gli afroamericani. In Lola Darling emergono già due tratti tipici: […] da un lato la passione per i generi, dalla commedia al musical, dal thriller al documentario; dall’altro l’impegno politico e sociale contro il razzismo americano. Non a caso il nome della sua produzione rievoca le false promesse dei politici agli schiavi liberati ("Avrete 40 acri di terra da coltivare e un mulo")» (Giorgio Gosetti). Lola Darling «attingeva alle esperienze del giovane Spike Lee. "Al tempo avevo molti amici maschi che si davano un sacco di arie su quante donne – loro dicevano ‘bitch’, io no – si rimorchiavano ", dice. […] "Se poi una di loro stava con uno di quegli amici, davano di matto, la gelosia esplodeva. Nel film […] l’ho rovesciata e raccontata dal punto di vista della donna. Mi venne istintivo rendere la donna protagonista e svergognare il maschio". E continua: "Dentro c’è il mio amore per Kurosawa. Cito Rashomon nella storia, dove i tre uomini si rivolgono al pubblico, come in un confessionale, dando il loro punto di vista su Nola [nome originario della protagonista, nella versione italiana reso come ‘Lola’ – ndr]. E come Kurosawa voglio che sia il pubblico a decidere chi è Nola, chi Jamie, chi Mars"» (Silvia Bizio). «Profondamente orgoglioso della propria identità afroamericana, dotato di un grande talento per la costruzione dell’inquadratura, realizza da subito un cinema dai contenuti forti e provocatori, accompagnandolo a una smagliante forma visiva, debitrice nei suoi ritmi delle sonorità jazz. Dopo Aule turbolente (1988), commedia musicale di ambientazione scolastica che denuncia il sistema educativo statunitense, Fa’ la cosa giusta (1989), affresco urlato e non riconciliato del ghetto nero di Brooklyn alla vigilia di una rivolta razziale, suscita grande interesse, ma anche accuse circa il presunto razzismo di Lee nei confronti di altri gruppi etnici (italoamericani ed ebrei in particolare)» (Gianni Canova). «Spike Lee non teme di mettere il dito nella piaga e descrive a muso duro gli stereotipi razziali calcando la mano sugli aspetti più eccessivi. Lo scontro tra neri e italiani, che tornerà in numerose pellicole, è il Leitmotiv delle periferie degradate di New York, ma è anche un omaggio intrinseco a colui che Spike Lee considera suo maestro, Martin Scorsese. […] Il tema dello scontro razziale si ripropone in maniera meno chiassosa in Jungle Fever, storia d’amore proibita tra un brillante architetto nero (Wesley Snipes) e la sua segretaria bianca (Annabella Sciorra). Ancora stereotipi – sessuali – a confronto per una riflessione raffinata sulle regole imposte dalle comunità, sul confine sottile da non varcare per non infrangere tali regole, sull’influenza che i pregiudizi possono avere sulla vita delle persone e sull’influsso nefasto delle droghe sulle famiglie afroamericane. […] Mo’ Better Blues è un omaggio al padre jazzista Bill Lee. Il film racconta la storia del trombettista jazz Bleek Gilliam, baciato dal talento e amato dalle donne. Spike Lee si ritaglia il ruolo del suo manager, la cui ossessione per il gioco d’azzardo lo condurrà alla rovina, spingendolo a trascinare con sé coloro che cercano di aiutarlo. Il film è una pietra miliare del cinema di Lee. Per la prima volta compare quello che diventerà un marchio di fabbrica, il dolly shot, carrellata nella quale l’attore e la macchina da presa vengono posti entrambi su un carrello in movimento, creando un effetto di disorientamento. Mo’ Better Blues segna, inoltre, la prima collaborazione di Spike Lee con Denzel Washington. I due lavoreranno insieme in altri tre film: He Got Game, Inside Man e il monumentale Malcolm X. Qui, in tre ore e venti, il regista condensa la vita eccezionale del leader della Nazione Islamica. Fin dall’incipit, in cui la voce di Malcolm X proclama un durissimo discorso d’accusa nei confronti dei bianchi mentre sullo sfondo una bandiera americana brucia per far posto alle immagini del pestaggio di Rodney King, si capisce che la posta in gioco è alta. […] Per dirigere Malcolm X, Spike Lee ha dato battaglia alla Warner, strappando il lavoro al bianco Norman Jewison. La stessa vis polemica, il regista l’ha impiegata per difendere le proprie scelte creative e per trovare il denaro necessario a raggiungere il budget richiesto» (Valentina D’Amico). «Contemporaneamente mette in scena anche racconti più intimi, non privi di aguzza paradossalità: l’amore interrazziale contrastato dal razzismo dei rispettivi gruppi familiari in Jungle Fever (1991), la storia di una famiglia afroamericana dal punto di vista di una bambina di dieci anni in Crooklyn (1994). A dispetto della vocazione sperimentale continuamente esibita (una porzione di Crooklyn è girata in Cinemascope senza lente anamorfica, con distorsione dell’immagine), prima con il solido Clockers (1995, da una sceneggiatura non propria), spaccato del mondo di un piccolo spacciatore, poi con il leggero Girl 6 – Sesso in linea (1996), sulle peripezie di un’attricetta costretta a lavorare come telefonista erotica, Lee sembra entrare in una crisi di ispirazione, dalla quale non lo riscattano né l’innegabile sincerità di Bus in viaggio (1996), ricognizione quasi documentaria del viaggio di alcuni uomini di colore alla volta della famosa Million Man March, né l’apprezzabile approfondimento psicologico di He Got Game (1998), sul difficile rapporto tra un campione di basket e il padre galeotto. Paradossalmente, proprio con SOS Summer of Sam – Panico a New York (1999), raccontando per la prima volta una comunità etnica diversa da quella nera – gli italoamericani del Bronx – e un sanguinoso episodio di cronaca – le gesta del serial killer battezzato “Figlio di Sam” nella torrida estate del ’77 –, torna ai suoi esiti migliori, costruendo un affresco realistico e simbolico insieme delle paure e delle tensioni sotto la superficie di una società che si dichiara civile. Il capolavoro della sua maturità resta tuttavia La 25a ora (2002), dove, raccontando l’ultimo giorno di libertà di uno spacciatore (E. Norton) che si accinge a entrare in carcere per scontare sette anni di reclusione, Lee riesce a rendere come nessun altro il clima emotivo dominante a New York dopo la tragedia dell’attacco alle Twin Towers l’11 settembre 2001. Con Lei mi odia (2004) vira verso una commedia satirica di costume su un manager che, dopo essere stato licenziato per aver denunciato gli scandali della multinazionale di cui era dipendente, diventa uno stallone a pagamento per gruppi di donne lesbiche che desiderano avere figli. Nel 2006 firma una lucida denuncia con il documentario When the Levees Broke: A Requiem in Four Acts (“Quando gli argini si ruppero: un requiem in quattro atti”): la cronaca puntuale della tragedia provocata nel 2005 dall’uragano Katrina a New Orleans intercetta tutte le lentezze burocratiche e le colpe ricadute sugli aiuti alla popolazione e sull’amministrazione dell’emergenza. Inside Man (2006) è, invece, un riuscito film di genere, dalla sceneggiatura (di R. Gewirtz) densa di colpi di scena, su una rapina in banca con ostaggi, perfettamente congegnata da un ambiguo criminale, contro il quale deve vedersela un poliziotto sospettato di corruzione» (Canova). «L’esperimento non riuscirà altrettanto bene con Old Boy, remake del cult del coreano Park Chan-wook. Il film, ben poco coraggioso, spingerà in molti a chiedersi la ragione di una pellicola che non aggiunge niente di nuovo all’originale. […] Il più grande passo falso, però, Spike Lee lo compie con Miracolo a Sant’Anna. Il suo film "italiano" ricostruisce le gesta del battaglione afroamericano della 92a Divisione di Fanteria impegnato sulla Linea Gotica. La loro storia si intreccia a quella dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, rievocato in parte. Il film, risultato un flop, farà arrabbiare anche l’Anpi per le inesattezze storiche, costringendo il regista a giustificarsi; senza però che la sua voglia di tentare nuove strade venga meno, come dimostrano l’eccentrica love story horror Da Sweet Blood of Jesus e il curioso Chi-Raq, ritorno alla critica sociale che rilegge in chiave moderna e afro la Lisistrata di Aristofane» (D’Amico). Grande successo ha invece riscosso, da ultimo, BlacKkKlansman, che ha guadagnato a Lee il Gran premio al Festival di Cannes e la sua prima candidatura al premio Oscar per la miglior regia. «Perché questo film? “Jordan Peele, il regista di Get Out, mi chiama dicendomi che ha acquistato i diritti del libro. Gli chiedo: di che parla? Lui: di un poliziotto nero a Colorado Springs negli anni ’70 che s’infiltra nel Ku Klux Klan. Gli dico: vuoi ripetere? Un nero infiltrato nel KKK? È mai possibile? Sì, mi dice. Ed eccoci qui”. […] Di grande attualità, anche se ambientato negli anni Settanta. “Per avere successo sapevo che dovevamo mettere nel film, dall’inizio alla fine, frasi e parole che avrebbero fatto chiedere allo spettatore: un momento, ma davvero dicevano queste cose allora? Beh, le dicono anche oggi”. Ha scelto di chiudere il film ricordando i tragici eventi di Charlottesville e lo scontro tra i liberal e i suprematisti bianchi di destra. Perché? “La tragedia è successa durante la post-produzione del film. […] Io mi trovavo allora a Martha’s Vineyard in Massachusetts, e quando ho sentito quello che è successo ho subito saputo che questo doveva essere il mio finale. Ho chiamato la madre della ragazza che è stata ammazzata, messa sotto dall’auto del folle, e, una volta ottenuta la sua benedizione, ho detto ‘Fottetevi tutti: quella scena sarà nel fottuto film’. Abbiamo un tipo alla Casa Bianca di cui non dico il nome, e quel fottuto aveva la possibilità di dire che in America serve l’amore e non l’odio: quel fottuto non ha denunciato i fottuti Klan, l’ultra-destra e i fottuti nazisti. Ma questa non è una cosa solo degli Usa: la destra appartiene a tutto il mondo. Ogni sera vado a letto pensando che questo tipo alla Casa Bianca ha un codice nucleare, e mi spaventa. Ma ci sono ingiustizie in tutto il mondo. Non voglio che la gente esca da questo film pensando che queste cose succedono solo negli Usa: è un problema globale”. Con il film dice di voler risvegliare gli animi, non solo in America. Un film può ottenere questo effetto? “Io credo che l’arte possa cambiare il mondo: che sia un quadro, una fotografia, un film, un libro, una canzone, è il potere dell’arte e della narrativa. Sì, per me questo film esorta a un risveglio delle coscienze. E non mi importa cosa dicono: io so che siamo dalla parte giusta della storia”» (Bizio) • Sposato, due figli (una femmina e un maschio) • Grande passione per il baseball (New York Yankees), la pallacanestro (New York Knicks) e il calcio (Arsenal). «È vero che lei è fan dell’Inter? “Beh, non solo: mi piace anche la Roma, mi piace la Juventus… Dipende da dove mi trovo in Italia”. Non è proprio la stessa cosa: sa che il calcio è molto importante in Italia e le tifoserie sono molto schierate… “Ti ricordi la maglia rosa della Juve? Ecco, devo ammettere che quella mi aveva davvero fatto impazzire”» (Sonia Serafini) • «Se è vero che ognuno di noi combatte almeno un fantasma nella propria vita, quello di Spike Lee ha le sembianze del “padre del cinema americano” David Wark Griffith, e deve essere piuttosto ingombrante. L’origine della rabbia verso il maestro non ha una data precisa, ma coincide purtroppo con l’inizio della sua passione per il cinema. La ragione, invece, è molto chiara: il regista e produttore afroamericano non ha mai perdonato a Griffith il suo capolavoro di modernità: The Birth of a Nation. Riepilogo della trama per gli smemorati: il film – datato 1915 – racconta la storia della Guerra civile americana dal punto di vista dei bianchi, strizzando l’occhio ai terroristi bianchi del Ku Klux Klan, che vengono rappresentati come un gruppo di coraggiosi che volevano riportare l’ordine nel Sud devastato da schiavi neri liberati. Ora, minare il successo imperituro di The Birth of a Nation – primo film proiettato alla Casa Bianca, record di incassi per vent’anni – è da sempre un’ossessione per il regista di Brooklyn che da quattro decenni descrive meglio di chiunque altro la comunità afroamericana: da studente della New York University rischiò l’espulsione a causa di un cortometraggio che narrava di un regista nero assunto per realizzare un remake del film di Griffith. La reazione accademica fu feroce: quel ragazzetto afroamericano appassionato di fantascienza osava sfidare il padre del cinema, l’uomo che con le sue tecniche innovative aveva portato il cinema nel futuro. “Non sono uno di quelli che ti dicono che il suo film non andrebbe proiettato nei cinema o nelle scuole. Ma, tutte le volte che sento o leggo che Griffith è il padre del cinema americano, rispondo che allora significa che il padre del cinema americano è un razzista!”, mi dice» (Serena Danna) • «Cosa pensa della rimozione delle statue dei confederati? "Le devono abbattere tutte! Mi permetta di farle una domanda: ci sono ancora statue di Mussolini in Italia? O di Hitler in Germania? No! Come americani, come gente di colore, noi vediamo la bandiera confederata di battaglia come gli ebrei vedono la svastica. È la stessa identica cosa. Quelle statue raffigurano niente più che schiavisti e razzisti. Diciamo la verità, i nostri cosiddetti ‘padri fondatori’, George Washington e Thomas Jefferson, erano proprietari di schiavi. Ma queste cose nelle scuole non le insegnano. Gli Stati Uniti sono fondati sul genocidio degli indigeni americani e sulla schiavitù"» (Bizio). «Lei ha aderito al movimento Black Lives Matter, però accusa anche le comunità nere di eccessiva violenza. Si spiega? "Non sarei coerente né onesto se parlassi solo della violenza della polizia sui civili, soprattutto neri, senza citare quella che facciamo noi a noi stessi. C’è troppa violenza nelle comunità afroamericane delle grandi città americane. Troppa cattiveria, ignoranza, troppi padri assenti, bambini cresciuti da nonne, scarso senso civile. A me non importa di quale colore sia il dito che preme il grilletto. Dobbiamo denunciare entrambe le parti. Altrimenti sarebbe solo fanatismo settario"» (Bizio). «"Matteo Salvini? Con uno che ha quelle idee lì, non potrei mai prendere un bicchiere di vino, né ci andrei mai allo stadio a vedere la Juve e a tifare per Ronaldo. […] Quello che sta facendo in Italia Salvini, lo stanno facendo Putin in Russia, la Le Pen in Francia e Agent Orange da noi", ci spiega, indicando con quell’appellativo il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che non nomina, preferendo chiamarlo con il nome di quel liquido chimico prodotto dalla DuPont (Agent Orange, appunto) che durante la guerra in Vietnam veniva cosparso sulla vegetazione per evitare che la stessa potesse crescere. "Nessuno di loro è il mio tipo: preferisco tenerli alla larga. Non ho bisogno di essere faccia a faccia con la negatività, ma dare un messaggio che sia d’amore; questi individui dimostrano invece solo odio, e non li voglio accanto a me"» (Giuseppe Fantasia) • «Non si può negare a Spike Lee di avere compiuto una rivoluzione e di aver portato il cinema black e i problemi della gente di colore alla ribalta delle cronache artistiche, in tempi e con risultati sorprendenti: Lola Darling ha avuto anche il merito di ricordare che esiste una borghesia nera (e di farlo con uno humour e una grazia che Spike Lee dimenticherà presto), mentre Fa’ la cosa giusta, con tutte le sue ambiguità riassunte nella doppia citazione del finale – da Malcolm X e da Martin Luther King – è un film tutto ritmo e humour nero (questa volta non nel senso del colore della pelle) che ha registrato e anticipato con ritmo febbrile l’inevitabilità dello scontro razziale. […] E, nonostante la sua dimensione monumentale e una certa uniformità, Malcolm X è un film molto importante, forse il più onesto e limpidamente appassionato, destinato a restare come un pilastro tra le opere di un autore originale e speciale» (Irene Bignardi). «Spike Lee è un regista eccezionalmente bravo, ardito, fertile, […] portatore di uno stile che ha avuto forte influenza sul linguaggio audiovisivo contemporaneo (spot, video musicali, film): jump cut, velocità di montaggio, iperrealismo, musica dei Public Enemy, colori squillanti, punti di visione inediti, capacità di alzare la temperatura emotiva del racconto, un gran caleidoscopio di immagini e suoni. Questo, formalmente. Sostanzialmente, Spike Lee ha introdotto tre caratteristiche: si è battuto attraverso i film per convincere i neri ad abbandonare vite alcoliche, delinquenziali, inerti e tossiche nutrite dai sussidi di disoccupazione per prospettare loro esistenze diverse, per difenderli dal razzismo tuttora presente; ha preso in giro nei film italoamericani ed ebrei, confermando che l’appartenere a un’etnia non esime dall’ironia e dalla beffa; ha raccontato modi di vivere penosi e poveri, rivendicando indipendenza e coraggio. Dunque un lavoro anche ideologico molto impegnativo, in opere sempre divertenti: un miracolo. I suoi film […] sono film memorabili per la sua maggiore ambizione: essere cioè una sorta di Martin Scorsese nero, lasciare un affresco dell’America nera come lo lascia dell’America bianca quell’altro piccoletto che un tempo studiava cinema con lui, alla New York University Film School» (Lietta Tornabuoni). «Una delle cose notevoli dei suoi film: lo stile va di pari passo con l’impegno sociale. “Non è una cosa marginale: voglio che i miei film siano appaganti sul piano estetico. Già da bambino avevo gusti precisi: mi ricordo che ai piedi volevo le Converse. Eravamo nel 1965: la scelta era tra bianche o nere, e alte o basse. Ecco, io le volevo bianche, e basse”» (Pier Andrea Canei) • «Di sicuro i miei film hanno avuto una influenza sulla cultura in generale. Le persone mi dicono ancora che non sarebbero mai andate a una scuola di tradizione black, se non avessero visto Aule turbolente. Quello che faccio vivrà a lungo, dopo che me ne sarò andato. Ed è tutto ciò che puoi sperare: che la tua vita sia servita a qualcosa, in una maniera positiva» (a Jamil Smith).