Corriere della Sera, 19 marzo 2019
I dannunziani antifascisti
L’impresa di Fiume fu una delle avventure più straordinarie del primo dopoguerra. Per sedici mesi (dal settembre 1919 al dicembre 1920) i «legionari» di Gabriele d’Annunzio occuparono la città adriatica dando vita ad una sorta di anticipazione del Sessantotto. Finché il capo del governo italiano, Giovanni Giolitti, pose fine con la forza a quell’esperienza nel cosiddetto «Natale di sangue». L’avventura fiumana suggestionò i contemporanei. Benito Mussolini ne trasse ispirazione per la successiva marcia su Roma, ma ebbe, nei confronti del «Vate» e dei suoi seguaci, un atteggiamento ambiguo. Lenin notò il carattere «rivoluzionario» dell’impresa dannunziana. Antonio Gramsci, evacuata Fiume, provò (inutilmente) a coinvolgere il poeta e i suoi reduci per contrastare le camicie nere che si accingevano alla presa del potere (nell’ottobre del 1922).
Mussolini ebbe l’abilità di far dimenticare la propria doppiezza nel corso di quei «sedici mesi», di evidenziare la linea di continuità tra l’impresa dannunziana e la sua. E, nel delicatissimo triennio successivo alla conquista del governo, riuscì a tenere legato a sé d’Annunzio, vellicandone la vanità. In particolare nel momento più delicato: nelle settimane che seguirono il rapimento e l’uccisione di Giacomo Matteotti (estate del 1924), d’Annunzio divenne quasi un incubo per i fascisti. Quattordici anni dopo, il giorno successivo alla sua morte (1° marzo 1938), il Duce confidò a Galeazzo Ciano la convinzione che se d’Annunzio all’epoca dell’assassinio di Matteotti e della crisi che ne seguì «si fosse schierato contro», sarebbe stato «un pericoloso avversario perché aveva molto seguito nella gioventù». Ma in quella occasione d’Annunzio rassicurò personalmente Mussolini che non avrebbe mosso un dito contro di lui, raccomandandogli di «aver fede intiera» nella sua «lealtà e carità di patria». Per poi aggiungere: «Il mio silenzio e il mio lavoro sono oggi un esempio a tutti gli italiani; non l’uno sarà interrotto e non l’altro». Dopodiché, però, quando a fine luglio del 1924 le cose per il Duce sembrarono volgere al peggio, l’onorevole Tito Zaniboni dichiarò su «Il Mondo» che d’Annunzio aveva scritto in una lettera a un legionario di essere «molto triste di questa fetida ruina». E il poeta non smentì. Non voleva deludere Mussolini, ma neanche i suoi ammiratori che in quei giorni prendevano le distanze dal fascismo.
In effetti a seguito dell’impresa fiumana il prestigio del poeta era altissimo, fa notare Giordano Bruno Guerri nello straordinario Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920, che sta per essere dato alle stampe da Mondadori. Molti erano convinti che l’autore de Il piacere potesse costituire un pericolo per il fascismo. Ernest Hemingway, in una corrispondenza dalla Svizzera per un giornale americano, scrisse: «In Italia sorgerà una nuova opposizione, anzi si sta già formando e sarà guidata da quel rodomonte vecchio e calvo, forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso che è Gabriele d’Annunzio». Condivideva (a modo suo) questa opinione il generale Emilio De Bono, quadrumviro della marcia su Roma e ora capo della polizia, che nel dicembre 1922 invitò i prefetti a «controllare e reprimere tutte le organizzazioni legate al suo nome, a partire dalla Federazione dei legionari». Nell’aprile 1923 la Federazione, i sindacati di ispirazione dannunziana e l’Associazione arditi d’Italia si misero assieme nell’Unione spirituale dannunziana, con l’obiettivo dichiarato di resistere al fascismo e di fondare una costituente sindacale ispirata a quella costituzione utopistica che aveva preso il nome di Carta del Carnaro. In seguito, fa notare Guerri, fra l’estate e l’autunno una raffica di perquisizioni e di arresti fece naufragare il progetto. Fu del resto lo stesso d’Annunzio a mettere le cose in chiaro con Mussolini scrivendogli (il 15 maggio 1923): «Io non voglio essere aggettivato… Il nome dannunziano mi era già odioso nella letteratura, odiosissimo m’è nella politica». Un modo quasi esplicito per dirgli che, pur non mettendosi di traverso, non voleva essere strumentalizzato. L’unico intervento del poeta nella vita pubblica fu nello stesso 1923 la difesa della Federazione italiana dei lavoratori del mare (del suo vecchio sodale Giuseppe Giulietti) ad impedire che fosse inclusa nei sindacati fascisti.
Nel 1924 l’Unione spirituale dannunziana assunse un atteggiamento sempre più apertamente antifascista: nel corso della crisi successiva all’uccisione di Matteotti, si unì all’opposizione dell’Aventino e tra l’8 e il 10 settembre convocò a Milano un Consiglio nazionale. Qui i reduci dell’impresa fiumana non confluiti nel fascismo presero quella che Guerri considera una «decisione estrema»: vista la volontà del Comandante di appartarsi dalla politica, dichiararono di ispirarsi al pensiero e non alla persona di d’Annunzio, «per il raggiungimento», dissero, «di quegli ideali, consacrati nella sua multiforme attività», di cui avevano fatto il loro «credo». Recuperando le «vecchie consuetudini dell’Ufficio colpi di mano», in pochi giorni, scrive Guerri, «i legionari trasformarono l’Unione spirituale in un’associazione clandestina, con depositi segreti, tessere anonime e una rete di cellule incaricate di sostenere le lotte operaie e tutte le forme di opposizione al regime». Ma era tardi. Troppo tardi.
Le «leggi fascistissime» del 1925 «si abbatterono inesorabilmente anche sulla debole coalizione legionaria, di cui», ammette Guerri, «non abbiamo notizie certe se non nelle relazioni della polizia e nei rari opuscoli sequestrati durante la perquisizione delle sedi». Tra novembre e dicembre 1925 l’Unione – «ultima custode militante del fiumanesimo indipendente» – fu travolta dalla repressione. Nel frattempo d’Annunzio non si era ribellato alla svolta autoritaria di Mussolini. Anzi. Tra aprile e maggio del 1925 Mussolini promosse la trasformazione del Vittoriale in monumento nazionale. La generosità del Duce ebbe, secondo Guerri, un secondo fine: «Pagare per il Vittoriale era come ipotecarne l’abitante, che sarebbe divenuto “suo”… e per i più sprovveduti e i faziosi non ha mai smesso di esserlo». In realtà Mussolini «non coprì d’oro d’Annunzio che avrebbe potuto vivere più che bene con i diritti d’autore», bensì «spese per tenerlo occupato e – soprattutto – per cambiarne l’immagine pubblica legandolo al fascismo più di quanto non fosse». In questo clima di «circospetta vicinanza» maturò «una delle decisioni più controverse del Vate» che accettò di firmare il Manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Giovanni Gentile (a cui si contrappose quello di Benedetto Croce, voluto da Giovanni Amendola) sottoscritto – tra gli altri – da Filippo Tommaso Marinetti, Curzio Malaparte, Luigi Pirandello, Giuseppe Ungaretti.
In realtà, scrive Guerri, d’Annunzio non fu mai fascista. Ne è riprova il fatto che «fra gli oltre ventimila oggetti della sua casa non si trova un solo fascio o elemento che richiami il regime, se non relegato tra i doni che riponeva nel solaio». Parlava, il Vate, di «camicie sordide», mai di camicie nere; non celebrava le date sacre del regime e aveva quasi sempre parole di disprezzo per i gerarchi. Rispettava in Mussolini il demiurgo capace di realizzare «quel che a lui non era riuscito, una rivoluzione», ma sempre considerandolo «un uomo di gran lunga inferiore, umanamente e intellettualmente». Un uomo «tenuto a rendergli omaggio». Le sue lettere al Duce, «spesso citate a riprova di ammirazione e devozione», sono in realtà «un gioco di lusinghe e di minacce che più volte l’interlocutore non afferra» (come ha messo in luce una decina di anni fa Giampiera Arrigoni).
D’altra parte l’impresa di Fiume era stata, certo, «un episodio del nazionalismo più consueto», ma aveva rappresentato soprattutto «una rivolta generazionale contro ogni regola costituita dal liberalismo, dal socialismo, dalla diplomazia tradizionale e dalle convenzioni». In questo fu, come si è detto all’inizio, un’anticipazione del Sessantotto.
Dopo l’epilogo sanguinoso, però, la vicenda fiumana venne a tal punto inquinata dalla mitologia fascista da essere in seguito, dopo la caduta di Mussolini, «trascinata nell’oblio». Quasi per ritorsione. La rivoluzione fiumana, sostiene Guerri, è stata bollata come «precorritrice del regime», perché così aveva voluto Mussolini. Da Fiume Mussolini prese «la liturgia della politica di massa, sperimentata la prima volta dal Vate» che fu «il primo e ultimo poeta al comando nella storia dell’umanità»: «i discorsi dal balcone, il dialogo con i seguaci-fedeli, il culto per i caduti e le bandiere, il “me ne frego”, l’“a noi!”, le camicie nere e i fez degli arditi, Giovinezza, le marce, le cerimonie di giuramento, riti e miti». In realtà, ribadisce Guerri, ai tempi dell’impresa fiumana Mussolini aveva ingannato d’Annunzio, facendogli credere di essere dalla sua parte mentre tesseva trame con Giolitti. Poi, giunto al potere, il fascismo lasciò in soffitta l’essenza della rivoluzione fiumana, che era libertaria, e imboccò una strada tutta sua. Portando sulle spalle «l’indebito peso di una dittatura vicina solo per contiguità», chiarisce l’autore, il fiumanesimo verrà in seguito giudicato «in base a ciò che è avvenuto dopo e che sarebbe accaduto comunque»: i Fasci di combattimento erano stati fondati oltre sei mesi prima dell’ingresso del «Poeta guerriero» a Fiume; e avrebbero avuto la stessa evoluzione «anche senza l’esempio di d’Annunzio», il quale aveva dimostrato soltanto che «lo Stato liberale poteva essere sfidato – e vinto – con la forza».
Mussolini fece proprio il saluto «eia eia alalà» – peraltro inventato da d’Annunzio molto prima del 1919, ma, secondo Guerri, non avrebbe mai accompagnato quell’esplosione di gioia con la frase che vi aggiunse il Comandante: «Viva l’amore!». E se molti legionari aderirono al fascismo, altri furono antifascisti, persino martiri dell’antifascismo o morti in esilio come l’altro uomo più importante della rivoluzione fiumana, Alceste De Ambris. «Si dimentica dunque», prosegue l’autore di Disobbedisco, «che Fiume fu anzitutto una “controsocietà” sperimentale in contrasto sia con le idee e i valori dell’epoca sia – e tanto più – con quelli del fascismo». Semmai da Fiume emersero caratteristiche che avrebbero dominato la scena un secolo dopo: la spettacolarizzazione della politica, la distorsione della realtà tramite la propaganda, la ribellione generazionale, l’avanguardia e la festa come mezzi di contestazione, la rivolta contro la finanza internazionale, il conflitto tra nazionalismi, i volontari che lasciano Paesi d’origine per combattere guerre globali, la libertà sessuale e di abbigliamento, il ribellismo e la trasgressione.
Dopo il 1945 Fiume venne assegnata alla Jugoslavia di Tito. A difendere l’italianità di Fiume presso le potenze alleate, rimasero solo pochi politici locali, tra cui Riccardo Zanella. Tolto «il bavaglio» cui l’Italia fascista l’aveva costretto per vent’anni, l’autonomista Zanella cercò di presentare lo Stato libero come una «vittima del fascismo» alla stregua dell’Etiopia e dell’Albania. I rapporti con Tito, però, «erano troppo importanti per gli Alleati che gli avevano già negato Trieste». Era necessario offrirgli una contropartita e il leader comunista, che aveva unificato i partigiani serbi, croati e sloveni, poté presentarsi come il vendicatore delle violenze sopportate in guerra dagli slavi durante l’occupazione italiana. Dopodiché i «liberatori comunisti», scrive Guerri, «non furono meno feroci degli sconfitti nazifascisti» e quando entrarono a Fiume, il 3 maggio del 1945, diedero immediatamente inizio alla pulizia etnica. La repressione del dittatore Tito costò la morte di oltre seicento fiumani e l’esilio di altri trentottomila. Poi la Jugoslavia si adoperò a «cancellare metodicamente ogni traccia dell’identità italiana». Contemporaneamente l’Italia repubblicana escluse l’impresa di Fiume dalla galleria della storia nazionale. A commemorarla, al Vittoriale, restarono solo alcuni legionari «appesantiti e ingrigiti, con la medaglia di Ronchi appuntata sulla giacca». E man mano che morivano, quei raduni si fecero sempre più striminziti.