il manifesto, 19 marzo 2019
Intervista a Mike Leigh
Manchester 1819: Napoleone è stato sconfitto tre anni prima a Waterloo ma il popolo inglese è affamato – le leggi sul grano penalizzano l’importazione e per la working class è difficile anche solo permettersi il pane. Ad avere il diritto di voto, inoltre, è circa il 2% della popolazione, e intere aree del paese non hanno neanche una rappresentanza in parlamento. È in questo clima che il 16 agosto circa 60.000 persone si ritrovano a St. Peter’s field per ascoltare l’oratore radicale Henry Hunt e chiedere a gran voce una riforma democratica del sistema elettorale.
Un evento cruciale della storia inglese raccontato da Peterloo di Mike Leigh (in sala il 21 marzo) con il suo tragico esito: a fronte di una manifestazione pacifica nella piazza irrompono l’esercito, la guardia locale e gli ussari a cavallo, e la repressione violenta lascia sul campo 15 morti e circa 700 feriti – da cui il nome che la stampa diede al massacro di Sain Peter’s, evocando la battaglia campale di Waterloo.
Nel suo racconto Leigh tratteggia tutte le «anime» politiche e sociali radunate in quella piazza, un’ode alla democrazia e alla working class e una dura condanna della spregiudicatezza e della natura menzognera del potere. «Quello che vediamo in Peterloo – dice Leigh – sono le forze della repressione messe a nudo».
Come mai ha voluto fare un film su quel massacro?
È una vicenda che non era mai stata raccontata al cinema nonostante sia un momento fondamentale nella storia della democrazia in Gran Bretagna e non solo: credo sia rilevante anche a livello internazionale. Sono cresciuto a Manchester, molto vicino a Saint Peter’s field, eppure da ragazzo non ne avevo mai sentito parlare, come molti altri miei concittadini. Ma nel corso del 19esimo secolo questo evento ha avuto una grande eco, e ha ispirato importanti movimenti come quello cartista (per il suffragio universale maschile, la segretezza del voto ecc., ndr) e il movimento operaio. Ciò che non potevamo sapere nel 2014, quando abbiamo iniziato a lavorare al progetto, è che ci saremmo ritrovati quotidianamente a pensare che la storia che stavamo raccontando aveva una grande attinenza con il presente. Non sapevamo ancora di trovarci in un Paese che stava per sprofondarsi con le sue stesse mani nel disastro più assurdo che si possa immaginare, la Brexit.
La Brexit è stata un processo democratico ma anche segnato da tante menzogne, che «dialogano» con quelle della classe dominante in «Peterloo».
È questo il paradosso – e la tragedia: si tratta di democrazia ma in cui qualcosa è andato storto, di una sua «perversione». Perché la Brexit non è stata motivata da un senso positivo della verità, ma dal peggior genere di xenofobia e paranoia, e dall’ignoranza. È la stessa «malattia» che ha portato all’elezione di Trump negli Usa, ed è significativo che questa conversazione avvenga a Roma, considerato quello che sta accadendo anche in Italia.
«Peterloo» è un film corale, senza protagonisti né eroi, basato sull’importanza e la centralità della parola.
Da subito ho deciso che non volevo scendere a compromessi per quanto riguarda i discorsi: quella di Peterloo è una storia sulle idee, sulla contestazione, sulla comunicazione. I discorsi vengono da fonti storiche, e siamo stati molto rigorosi nel «sintetizzarli»: ognuno è diverso dall’altro, aggiunge una nuova sfumatura o una nuova prospettiva. E non ho mai pensato che ci sarebbe stato un protagonista: l’unico modo di portare sullo schermo questa storia è raccontare tutte le fazioni coinvolte. Non faccio film che «dichiarano» il proprio messaggio: mi rivolgo invece alle emozioni, alla rabbia di chi guarda, che poi può informarsi sui fatti per conto proprio.
Il racconto ha una struttura circolare: inizia e finisce su Joseph, un giovane reduce di Waterloo.
C’erano realmente dei veterani di quella battaglia a Saint Peter’s, uno di loro è stato gravemente ferito ed è morto due settimane dopo. Sul suo omicidio è stata aperta un’ inchiesta poi subito fermata dalle autorità: indagando infatti cominciarono a emergere tutti i dettagli di quanto era accaduto.
Una sequenza si rivolge direttamente ai nostri tempi: i genitori di Joseph si interrogano sul futuro della loro nipotina appena nata, che vedrà gli albori del nuovo secolo, il 900.
È una scena che nasce da una vicenda personale: l’abbiamo girata una settimana prima che nascesse mio nipote, per cui pensavo spesso che lui avrebbe vissuto abbastanza da vedere la fine del 21esimo secolo. Evocare nel film la vicinanza del 900 rappresenta un collegamento anche con noi: ci ricorda quanto in fondo questa storia sia recente, e la sua urgenza. E il suo senso profondo è la convivenza degli opposti: non posso non essere ottimista vedendo mio nipote crescere – eppure se guardiamo come è ridotto il mondo, quello che stiamo facendo alla terra, l’ascesa dell’estrema destra ovunque, è necessario essere pessimisti. Per cui si crea una tensione fra un naturale ottimismo e un inevitabile pessimismo.
Nei fatti di Peterloo il ruolo della stampa ha una grande rilevanza.
In fase di ricerca i quotidiani dell’epoca mi hanno affascinato: come oggi c’erano giornali di sinistra e di destra ma la cosa interessante è che il «Times of London», ad esempio, pur essendo un giornale conservatore ha riportato esattamente ciò che era accaduto in ogni minimo dettaglio. Oggi, per quanto abbia motivo di essere estremamente cinico nei riguardi di gran parte della stampa, credo ancora appassionatamente in quella che invece fa il suo dovere.