il manifesto, 19 marzo 2019
Riecco la manina americana sulla crisi in Serbia
La storia in Serbia si ripete con una «manina» americana? Ero a Belgrado il giorno dell’arresto di Slobodan Milosevic nell’aprile 2001 e avevo faticato a ottenere una stanza all’hotel Hyatt.
Di fianco all’ambasciata cinese bersagliata nel ’99 dai missili Usa. Tutto occupato. In realtà due piani, per l’operazione Milosevic, erano stati sequestrati da funzionari americani e Cia.
Anche stavolta sembra che si rinnovi un certo copione. Il portale di notizie “Govori Serbia” ha pubblicato foto e video di incontri presso l’Hotel Hilton tra i leader delle proteste anti-Vucic e funzionari dell’ambasciata statunitense. La primavera serba, come quella albanese e montenegrina, sembra che si trascini dietro un lungo inverno, cominciato con la disgregazione della Jugoslavia e le sue guerre. Siamo tra l’altro a pochi giorni dall’anniversario dei 20 anni dai bombardamenti della Nato su Belgrado e in Kosovo cui partecipò anche l’Italia del governo D’Alema. Un lungo inverno in cui i serbi, ma non solo loro, sono costretti da trent’anni a scendere in piazza per chiedere maggiore giustizia e libertà di informazione. Ma anche pane e lavoro. Un tema in queste ore più nascosto ma che incide sulla pelle dei balcanici: la Serbia ha uno dei salari medi più bassi tra i Paesi della regione.
Stando ai dati diffusi dal centro di ricerche Demostat, la paga mensile netta in Serbia è di 422 euro, solo in Macedonia e Albania è più bassa, rispettivamente di 376 e 378 euro. Ormai la delocalizzazione delle imprese occidentali nei Balcani costa meno che in Cina. Le retribuzioni mensili cinesi sono in media ben superiori: a Shanghai 1.130 dollari, 980 a Pechino e Shenzen. E la gente se ne va: in pochi anni la Serbia, come gli altri vicini, ha perso centinaia di migliaia di abitanti emigrati all’estero, in Germania e Austria, come i “gastarbaiter” dell’ex Jugoslavia.
In questo quadro Vucic, che qualche giorno fa ha incontrato il premier italiano Giuseppe Conte, ha le sue pesanti responsabilità: come sottolinea un recente reportage di Le Monde diplomatique, ha accentuato la svolta neo-liberista dell’economia serba e si è appoggiato a una cerchia di fedelissimi tenendo in pugno il Paese con un mix di repressione e clientelismo. Ma gli stessi Paesi dell’Ue finora non lo hanno criticato troppo: lo ritengono garante della stabilità del Paese e di una regione costantemente minacciata dalla irrisolta questione del Kosovo e dall’estrema precarietà bosniaca. mentre si aggiungono le proteste in Albania e Montenegro.
Ma neppure l’opposizione è esente da ambiguità. Il fronte anti-Vucic sembra unito ma in realtà vi confluiscono tendenze liberali e filo-occidentali, di sinistra ma anche di stampo iper-nazionalista e fascista. Con derive anche provocatorie, dopo quattro mesi di marce pacifiche, come ha dimostrato sabato l’irruzione nell’edificio di Rts, la tv di stato serba, guidata da Bosko Obradovic, esponente dell’estrema destra del partito Dveri, e in seguito l’assedio al palazzo presidenziale, con scansione degli stessi slogan che accompagnarono la caduta di Milosevic nel 2000. In questo clima di scontro e di incertezza ci sono stati gli incontri tra l’opposizione e i funzionari Usa avvenuti non lontano dalla cattedrale di San Sava, dove a gennaio una folla di 120mila persone ha acclamato il leader russo Vladimir Putin.
Una visita quella di Putin programmata per lanciare un avvertimento sul Kosovo e sull’espansione della Nato nei Balcani. Mosca e Belgrado hanno masticato amaro per l’ingresso del Montenegro nell’Alleanza atlantica e guardano con sospetto i recenti passi della Macedonia del Nord per entrare nella Ue e nella Nato. Anche Belgrado è candidata e entrare nell’Unione ma, come ripete, Vucic non ha nessuna voglia di aderire all’Alleanza che ha bombardato la Serbia venti anni fa. Ed ecco che mentre l’Ue esita tra il sostegno a Vucic – non in grado di trattare sul Kosovo con l’arrogante ex leader Uck e presidente a Pristina Hashim Thaqi – e l’ abbraccio all’opposizione, si profila ora la manina americana. Una manina dov’è scritta una parola: Nato.