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«La mia vita oggi? È lavoro. Non intendo un impiego, intendo una lotta. Il mondo che abbiamo davanti è veramente ingiusto per le persone ordinarie. Io non posso salvarlo e non credo che sia richiesto a nessuno. Tutto quello che dobbiamo fare è usare le nostre capacità per renderlo un po’ più giusto. E questa è la mia quotidianità: analizzare in che modo le tecnologie, create per liberarci, vengono invece usate per controllarci, e cercare di spostare l’asticella di un grado a favore delle persone ordinarie, invece di chi vuole avere il controllo sulle nostre vite». È il più famoso ex agente dell’intelligence Usa: quando nel 2013 Edward Snowden sbucò dal mondo oscuro dello spionaggio per denunciare che la potentissima agenzia americana Nsa, per cui lavorava, è in grado di spiare le comunicazioni del mondo intero, nessuno sapeva se ne sarebbe uscito vivo. Si è salvato chiedendo asilo a ventuno paesi, tra cui il nostro che, come quasi tutti gli altri, rispose picche, mentre la Russia gli concesse protezione, dopo che WikiLeaks l’aiutò a scappare. Repubblica lo ha intervistato via chat da Mosca, dove ancora si trova.
Snowden, grazie ai suoi file abbiamo rivelato lo spionaggio Nsa contro l’Italia. Perché sono interessati a noi?
«La ragione più importante e che non cambierà mai è semplicemente l’influenza: gli Stati Uniti vogliono essere in grado di influenzare le future direzioni in cui l’Italia si muove, politicamente, economicamente e in generale. Se sei un cittadino italiano, non hai alcuna protezione legale dallo spionaggio Usa. E allora basta pensare cosa questo possa significare per un giudice italiano che indaghi su un caso che riguarda gli Stati Uniti, per un politico italiano, per un reporter che lavora a un articolo scomodo per i poteri oltreoceano».
Lei ha solo un permesso di residenza temporaneo in Russia, che farà quando scadrà?
«È stato già rinnovato e forse lo sarà ancora una volta o per sempre, a meno che non mi accolga l’Italia. Forse lei può chiederlo (ride)».
Si fida, visto quello che è successo con l’extraordinary rendition di Abu Omar?
«Ho lavorato giusto un paio di giorni a Milano, quando ero nella Cia: un collega era andato in vacanza e c’era bisogno che qualcuno andasse lì perché i computer non avessero problemi. Amo Milano, una città bellissima. Incontrai alcuni agenti Cia non implicati direttamente nella rendition, che era stata gestita a Roma, ma che conoscevano quelli di Roma. La cosa incredibile è che tutte le spie Cia in Italia erano arrabbiate per l’operazione e per l’inchiesta della magistratura, ma non erano infuriate perché i loro colleghi avevano violato i diritti umani, erano infuriate perché erano stati così sciatti! I vostri magistrati hanno fatto un grande lavoro. Una pura indagine di polizia. Quelle spie non avevano preso alcuna precauzione, perché non avevano alcun rispetto della sovranità italiana. Non pensavano che gli italiani avrebbero fatto qualcosa, se fossero stati scoperti: li vedevano come bambini».
Cosa ha ottenuto con la sua scelta?
«Quello che è successo nel 2013 è che, improvvisamente, è stato rivelato ciò che gli esperti sapevano fosse possibile, almeno in via teorica (spiare miliardi di persone contemporaneamente, ndr). Tutto ciò avviene su larga scala a opera di governi e aziende che avevano assolutamente negato. E tutti noi abbiamo sempre avuto questa idea che le forze di polizia raccolgano prove contro un sospetto chiedendo prima un mandato all’autorità giudiziaria e solo dopo averlo ottenuto, lo intercettano. Ma il mondo è cambiato, perché la tecnologia avanza molto più velocemente della nostra capacità di controllarla con le leggi. Invece di fare quello che abbiamo sempre fatto e che funziona (sorvegliare i sospetti in modo mirato, ndr), abbiamo iniziato a spiare tutto e tutti in qualsiasi momento. Dopo le mie rivelazioni, nessuno nega più che ciò avvenga. E a questo punto dobbiamo affrontare una domanda: come riusciamo a riguadagnare il controllo in un mondo in cui le leggi non ci proteggono più?».
Dopo la pubblicazione dei suoi file, Apple e altri giganti hanno iniziato a blindare iPhone e altre tecnologie con una crittografia molto forte. Come pensa che la Nsa abbia cambiato il suo approccio?
«Se non riescono a forzare la crittografia, hackerano gli apparecchi elettronici che cifrano le nostre comunicazioni: i nostri telefoni, i nostri computer. È la via imboccata dopo il 2013. Noi abbiamo sbarrato la strada della sorveglianza di massa delle nostre comunicazioni — una grande vittoria — ma loro hanno trovato nuove crepe per accedervi: le vulnerabilità nelle nostre tecnologie (sfruttate dagli hacker della Nsa, ndr). Apple, Google e tutte le più grandi aziende, anche Microsoft, hanno una serie infinita di gravi vulnerabilità nei loro software e purtroppo non sono costrette a pagare nessuna conseguenza. Fino a quando andremo avanti così, non cambierà nulla».
Lei mantiene un profilo molto basso, come passa le sue giornate?
«Passo sempre più tempo a lavorare per la Freedom of the Press Foundation (una fondazione Usa per la libertà di stampa ndr) di cui sono presidente e mi occupo della privacy dei telefonini, perché quest’area è un disastro completo. La mia vita è lavoro. Non un impiego, una lotta».