La Stampa, 19 marzo 2019
A scuola di ibernazione dagli animali
L’ibernazione non è fantascienza, è già fra noi: senza bisogno di scomodare film come «Alien» o «Interstellar», gli animali che vanno in letargo dimostrano che gli organismi complessi possono abbassare la loro temperatura - nel caso dello scoiattolo artico, fino a 2 gradi sottozero - e rallentare tutte le funzioni vitali, pur restando vivissimi. Se sono capaci di farlo loro, un giorno o l’altro potremo ben riuscirci anche noi, applicando il trucco (per esempio) ai viaggi nello spazio. Si tratta solo di scoprire qual è questo trucco: si nasconderà nella genetica o negli ormoni o in che altro? Probabilmente è una questione molto complessa, che coinvolge numerosi fattori interrelati, e da trattare con estrema cura, visto che il congelamento (se non viene incanalato in quel giusto percorso che ben conoscono gli orsi, i ghiri, le marmotte...) «spacca» il cuore, blocca la circolazione sanguigna e uccide le cellule, per prime quelle del cervello.
Finora noi umani siamo ben lontani dall’obiettivo dell’ibernazione controllata «on demand» e perciò siamo costretti a compromessi: nelle sale operatorie si usa il freddo per rallentare le funzioni vitali, ma dai 37 gradi della temperatura corporea normale non si osa scendere al di sotto dei 34 per timore di fare danni irreversibili. Siamo appena al punto di partenza. Peccato, perché l’ibernazione avrebbe molte applicazioni mediche utilissime: per esempio ridurrebbe il bisogno di ossigeno del cervello e quindi aumenterebbe le possibilità di sopravvivenza in caso di ictus o di attacco cardiaco. In teoria l’ibernazione potrebbe essere usata nella cura dei tumori: la radioterapia uccide le cellule cancerogene, ma come effetto collaterale bombarda anche quelle sane, che così rischiano di vedere alterato il proprio patrimonio genetico, e quindi di sviluppare loro stesse un tumore. Ma questo è meno probabile se l’organismo viene ibernato e riduce le duplicazioni cellulari, cioè gli eventi in cui il patrimonio genetico è più vulnerabile. Si potrebbe colpire il tumore con più radiazioni, temendo meno effetti collaterali. E la chemioterapia sarebbe più efficace se colpisse un tumore ibernato, le cui cellule non si replicano.
Per questi e altri obiettivi l’ibernazione degli animali, con la sua possibile applicazione all’uomo, viene molto studiata dalla medicina ordinaria come da quella spaziale. Tra gli specialisti italiani c’è Matteo Cerri, ricercatore dell’Università di Bologna, attivo nel Topical Team Hibernation dell’Agenzia spaziale europea, l’Esa. Cerri ha appena pubblicato il saggio «A mente fredda. L’ibernazione dal mondo animale all’esplorazione spaziale» (Zanichelli) ed è ottimista sulle prospettive: osserva che «i geni necessari a sopravvivere all’ibernazione potrebbero essere già presenti nell’uomo, anche se l’evoluzione ci ha fatto perdere la capacità di attivare il meccanismo».
Poi se imparassimo a ibernarci, si spalancherebbe per noi anche l’ulteriore prospettiva della crioconservazione, che è un concetto diverso, comportando non il rallentamento attorno agli zero gradi, ma la sospensione totale di tutte le funzioni vitali a -200° centigradi. Finora si crioconservano cellule e tessuti, non organismi interi; ma per i viaggi spaziali della durata di anni servirà questo, piuttosto che la semplice ibernazione. Scoprire i segreti del letargo animale sarà il primo passo.
In effetti l’ibernazione degli astronauti, se non addirittura la loro crioconservazione, potrebbe essere una condizione indispensabile per viaggi spaziali anche relativamente brevi come quello su Marte: nel migliore dei casi si tratterebbe di diciotto mesi per l’andata e altri nove per il ritorno, senza contare le passeggiate sul Pianeta Rosso. Meglio fare come gli orsi, i ghiri e le marmotte. La Nasa e l’Esa ci stanno lavorando. Sogni d’oro.