il Giornale, 19 marzo 2019
Intervista al compositore Roberto Cacciapaglia
Ora va alla conquista della Cina. Di questo passo, dove arriverà il compositore Roberto Cacciapaglia? Lui è già in pista per portare al pubblico di ogni latitudine il suo nuovo lavoro, «Diapason», convinto della forza taumaturgica delle note: «Possono cambiare l’uomo», annuncia. Incontriamo il musicista nel suo studio avveniristico di Milano. A tratti sembra di avere davanti un maestro spirituale, anche se gli piace la pasta al pomodoro, leggeva i fumetti di «Diabolik» e con l’amico Franco Battiato scorrazzava per la «Milano by night».
Cosa ha scoperto studiando il potere del suono?
«Le sue potenzialità sono incredibili. Il suono ci può aiutare tantissimo sia individualmente sia a livello sociale. Questo arriva da lontano, dal mito di Orfeo. La musica è l’arte dell’invisibile, è libertà totale».
Quali sono gli effetti?
«Il suono può toccare delle parti profonde, aprire delle porte di luoghi di noi che in questa società un po’ catena di montaggio non conosciamo o dimentichiamo, costretti a restare in superficie».
Un discorso che interessa tutti...
«Ho suonato ovunque dall’Europa all’Asia. La mia musica è stata adottata da una spedizione in Antartico, Concordia, dove c’erano scienziati provenienti da ogni parte del mondo. Sono stati sei mesi nel buio, in certi momenti a 80 gradi sotto zero. I miei brani sono stati la colonna sonora per i reportage. Poi l’Albero della vita...».
Lei ha composto le musiche per l’Expo di Milano 2015.
«Esatto. Le radici dell’albero sono la consapevolezza che dobbiamo rimanere uniti al nostro passato, a quello che ci appartiene. L’albero, come diceva Martha Graham (danzatrice e coreografa americana, ndr), è la nostra colonna vertebrale, il modo in cui noi stiamo nel presente. Sulla musica ho lavorato in modo emozionale».
Le emozioni riguardano anche la vita e le relazioni come l’amicizia.
«Per me l’amicizia è una cosa sacra. Ho amici bellissimi, alcuni che frequentavo già a cinque anni, compagni di scuola. Fanno tutt’altro nella vita. Ingegnere, scultore e il mio medico. Quando eravamo ragazzi io studiavo pianoforte e nelle pause li guardavo dalla finestra giocare a pallone».
Nella sua cerchia di non famosi, però, uno famoso c’è.
«Beh, Franco (Battiato, ndr): quando l’ho conosciuto avevo 16 anni. È venuto a trovarmi al Conservatorio a Milano, dove studiavo con Bruno Bettinelli (il maestro dei maestri, insegnante di Muti e Pollini, ndr). Di quel periodo ricordo l’esame del settimo anno con Luciano Chailly, il papà di Riccardo, l’attuale direttore della Scala».
Il motivo del «rendez vous»?
«Battiato era interessato alla musica elettronica. In classe avevo strumenti che all’epoca usavano solo i Pink Floyd e Brian Eno. Due anni dopo il Consiglio nazionale delle ricerche con Pietro Grossi ha aperto la sezione musica al Crn di Pisa».
Cosa l’ha colpita?
«Ho lavorato coi terminali Ibm. Sembrava di essere in 2001 Odissea nello spazio, aggeggi enormi e tecnici vestiti con il camice bianco».
La premiata ditta Roberto&Franco ne ha combinate tante?
«Siamo andati insieme a vedere il film L’Ultimo tango a Parigi, era 1972. Andavamo alla Piccola Scala che oggi purtroppo non c’è più. Frequentavamo fuori città il Carta vetrata, dove arrivavano gruppi rock come gli Uriah Heep».
Di Battiato che cosa l’ha colpita?
«Era già interessante da giovane, aveva grande vitalità e coraggio. Durante una tournée avevano un’auto Citroen che ha preso quasi fuoco. Tutti erano terrorizzati, lui è stato fantastico, ha alzato il cofano ed è riuscito a spegnere».
Oltre alle amicizie che cosa conta?
«Nella vita poter crescere. Davanti a un pianoforte mi sento come davanti a uno specchio. La cosa che mi interessa di più è l’evoluzione interiore, nel senso più alto del termine. Poi mi interessa l’altruismo».
Continui...
«Quando ho l’occasione, attraverso la musica cerco di contribuire a progetti di solidarietà. La gioia del donare è una scoperta meravigliosa».
Altra pagina maestro: come era il piccolo Roberto?
«Sono figlio unico, in casa mia sono stato inondato d’amore. Mi hanno raccontato che avevo l’argento vivo, non stavo mai fermo, davanti alla tv mi identificavo nei personaggi dei film, scatenandomi. Mi piacevano Rin Tin Tin, Lassie e Bonanza, poi il teatro di Eduardo De Filippo, trovavo eccezionale Carmelo Bene».
Le cotte giovanili?
«L’amore dei bambini è purezza, è come l’amore universale. La mia prima fidanzatina platonica, si chiamava Antonella, avevo sette anni. Mi colpivano i suoi occhi verdi».
Nel cuore ha sempre anche la sua città, Milano.
«Mi è rimasta sempre nel cuore la mia zona, corso Monforte e dintorni, rimasta talmente che, dal quartiere in cui vivevo da piccolo, non mi sono mai mosso. Per decenni ho avuto casa e bottega a pochi passi l’una dall’altra. Ho tradito solo per una decina di anni abitando vicino a San Siro».
Può fare un ritratto di famiglia?
«Mamma Sara, papà Antonio. Lei aveva una casa di moda, le prime volte che sono andato in giro per il mondo è stato proprio con lei, Parigi e New York. Poi i viaggi verso la Sicilia, guardavo i binari del treno e vedevo il pentagramma».
Altri tempi.
«Sui treni si faceva amicizia, erano un luogo di incontro, ora è tutto più impersonale. Mio padre era un imprenditore, si occupava di costruzioni, a livello medio».
Che ricordi ha di quel periodo?
«Un giorno mio zio, alle Eolie, mi ha portato in cima allo Stromboli, dove tra l’altro si è sposata recentemente mia figlia. Dalla cima con un cartone usato come slittino lui mi ha fatto fare una scivolata sulla sabbia, fino ai piedi del vulcano. Siamo arrivati al mare in quattro minuti».
Subisce ancora il fascino del Sud?
«In Sicilia da piccolo, quando c’erano dei grandi temporali, mi sono trovato davanti a dei pescatori che dicevano delle cose, una specie di mantra, facendosi il segno della croce, riuscendo così a spezzare la tempesta, le trombe d’aria».
Erano riti magici?
«Non lo so, ma li ho visti fare. Mi è rimasta impressa la bellezza di quei posti, i ritmi di madre natura. Ripenso alle spiegazioni di mia madre: mi aveva fatto notare che ci sono due momenti nella giornata, dove tutto si ferma, uno è prima dell’alba l’altro subito dopo il tramonto. La notte è una lunga espirazione. Mia mamma era connessa alla natura in una maniera incredibile».
La musica come arriva?
«Mia madre suonava il piano, mio nonno paterno, che di lavoro faceva il giudice, si cimentava con la tastiera, poi con chitarre e mandolini, scriveva musica».
È stato un colpo di fulmine?
«Ma va... Da ragazzino detestavo il piano. A un certo punto volevo smettere. Vivevo la musica come un dovere. Ma dopo un periodo alla chitarra sono tornato al pianoforte. Alle medie, spesso serviva un tastierista per suonare i Beatles e i Rolling Stones. Ma a un certo punto sono stato diviso tra musica e arte».
Che cosa voleva fare da grande?
«Strano, me lo ha ricordato una mia amica d’infanzia: a quattro, cinque anni avrei detto che volevo fare il compositore. In realtà già da piccolo disegnavo molto, tanto che ho frequentato il liceo artistico».
Ci sarebbe potuto essere un Cacciapaglia-pittore?
«Ho ancora tante cose fatte. Mi piaceva il genere astratto, figure oniriche alla Chagall con un lato oscuro, delle maschere, che sto riprendendo almeno come idea».
E Cacciapaglia-scrittore?
«Quello no, ma mi piaceva e mi piace leggere. Tra i miei libri Siddharta di Hermann Hesse; da ragazzino tanti fumetti come Diabolik, Paperino, quelli di Walt Disney in generale».
Gli anni della giovinezza, fu un’esplosione di interessi.
«Sono tornato in Francia perché mi interessava l’anti-psichiatria, successivamente ho lavorato anche con Basaglia. Abbiamo fatto uno spettacolo davanti a ventimila persone. Un’esperienza incredibile».
Quali insegnamenti dalla vita?
«C’è una pratica che si chiama sogno lucido, la pratico da molti anni, arriva dal Tibet. Noi dobbiamo essere svegli nel vero senso della parola. La vita gira e noi dobbiamo essere presenti per cambiare qualche cosa. Un grande maestro diceva se oggi è come ieri, domani sarà come oggi».
Presenti sempre e comunque...
«E consapevoli. Estendo questa idea anche all’alimentazione. Si può mangiare carne ma con coscienza, avendo compassione per l’animale; questo lo pensano dai buddhisti agli indiani d’America. Un maestro diceva che se si è distratti meglio essere vegetariani. Una volta nelle tonnare pregavano prima di ammazzare i tonni».
I maestri contano molto per lei?
«Sì. Un altro maestro diceva che non c’è niente di peggio che pensare che la vita non ti ha dato quello che tu volevi. Questa è un’attitudine completamente errata. Io nella vita ho fatto le cose sempre con l’idea di cercare di migliorare. In questo senso il lavoro non finisce mai».
Quindi bisogna accettare quello che arriva?
«La questione del sogno, delle aspirazioni, appartiene molto alla nostra epoca. In certi luoghi ho visto persone felici o in pace pur conducendo una vita molto semplice o non facile. Bisogna cercare di apprezzare quello che si vive e si è».
E parlando di se stessi come si vede?
«Sono uno che cerca di applicare le cose che ha imparato. Ho imparato che bisogna saper vedere gli altri, il regalo migliore che si può fare a una persona è ascoltarla. Poi bisogna allenarsi a essere felici».
Dalla psicologia ai proprio cari...
«Ho tre figli, due femmine e un maschio. Angelica che fa l’attrice, Sofia è pittrice, Antonio sound design, gestisce anche un’etichetta, Ema, che si occupa di pianisti e compositori. Con loro vado d’accordo, ci divertiamo. Una volta, quando erano piccoli, li ho portati su un elicottero trasparente sulle Dolomiti».
E le donne nella sua vita?
«Esseri meravigliosi, un dono. Bellezza e mistero. Ci accolgono in modo fantastico, possiedono una saggezza profonda e naturale. Eppoi la maternità. Ho assistito alla nascita dei miei figli, mi è sembrato che arrivassero dal centro dell’universo».
Dio...
«Ho avuto un’educazione cattolica, ma credo in un senso totale. Sono aperto ad altre religioni, purché sia amore. Dio è verità. E la vita è un’occasione meravigliosa di cui dobbiamo approfittare. Dobbiamo onorare lo scopo che dalla vita ci è dato».
Insomma non siamo soli.
«Certamente. Credo anche alla possibilità dell’esistenza degli alieni. Un mio amico a Londra si interessa a queste cose e mi ha mandato un filmato di un presunto disco volante triangolare sopra Amsterdam».
Torniamo sulla Terra: i fan?
«Rapporto straordinario, una signora di 90 anni è arrivata con una bimba di nove, si tenevano per mano, non erano nonna e nipote. Dopo i concerti mi piace conoscere il pubblico, a cui dico avete sguardi di luce. Sono una voce sola. Battiato mi diceva tu non hai un pubblico, hai un popolo».
Il suo nuovo disco si intitola «Diapason». Che significa per lei?
«Il diapason è la purezza, è la sorgente, ha la capacità di far entrare in sintonia, sulla stessa frequenza gli altri corpi sonori, è l’accordatura».
Dei dodici, qual è il pezzo-emblema di questo suo nuovo lavoro discografico?
«È Innocence, scritto su testo del poeta inglese dell’Ottocento William Blake. In questo disco ho usato anche un testo di Ghandi e mi sono ispirato a Martin Luther King».
La tournée?
«Dopo le date in Italia e ad aprile in Russia, per la prima volta sbarcherò anche in Cina, le città più importanti; in autunno sarò nella Grande Mela».