Il Messaggero, 19 marzo 2019
«Perché ridiamo delle disgrazie altrui»
Quale demone ci invade quando proviamo gioia per le disgrazie altrui? Quando la ex è costretta ad annullare il matrimonio, quando il rivale scivola su una buccia di banana? A questo fenomeno Tiffany Watt Smith, storica culturale britannica e docente universitaria, ha dedicato un libro con, appunto, tante bucce di banana in copertina. Cita un proverbio giapponese: «La sfortuna degli altri è dolce come il miele».
Lei elenca molti modi di identificare la stessa emozione, dal latino malevolentia al francese joie maligne, ma sceglie la parola tedesca, Schadenfreude, per il titolo del suo saggio. Come mai?
«Perché questo termine è stato preso in prestito dall’inglese, sin dal diciannovesimo secolo».
Non c’è una parola inglese per dire Schadenfreude, che pure è un comune espediente dell’umorismo britannico. E, a dire il vero, neppure in italiano. Non è strano?
«No, perché è un’emozione che molte persone cercano di dissimulare, o di nascondere. La parola deriva dal tedesco Schaden (danno) e Freude (gioia). Ha molti significati. Un tempo la gente le usava anche per riferirsi a esempi di vero e proprio sadismo».
Perché ha scelto di studiare questo fenomeno?
«Negli ultimi anni, si è parlato sulla stampa di Età della Schadenfreude, in politica e non solo. Inoltre, noi in Gran Bretagna spesso rimuoviamo emozioni difficili o scomode; la Schadenfreude, invece, è una normale esperienza umana – anche se spesso è quella che ci fa provare più vergogna – e vale la pena indagare sulle sue motivazioni».
In che modo?
«Chiedendoci: pensiamo che quella persona meriti una simile sfortuna? Perché? Il nostro piacere consiste nel vedere qualcun altro perdere, e di conseguenza nel sentirci come se fossimo noi a vincere? Possiamo imparare qualcosa sui nostri avversari? Forse, ad essere onesti con noi stessi, invidiamo la persona di cui ridiamo per un imbarazzante errore: la Schadenfreude è una reazione normalissima nei confronti di chi ci fa sentire in qualche modo inferiori. Ma, soprattutto, ci ricorda che non siamo i soli a sbagliare. Insomma, si tratta di un’emozione indispensabile in questa era di curata perfezione e di infinite pressioni per il successo».
Meglio pensare bene o male?
«Non credo che le emozioni siano, in sé, buone o cattive; ma a volte il modo in cui reagiamo può creare problemi. La Schadenfreude ci può far sentire in colpa, ma è anche un piacere, ci fa stare bene, ci aiuta a rapportarci con i nostri errori. E gioca un ruolo nel nostro modo di creare legami in situazioni difficili. Per esempio, a volte, invitiamo la gente a ridere delle nostre disgrazie. Quando raccontiamo del nostro nuovo lavoro e raccontiamo il disastro accaduto il primo giorno in ufficio, desideriamo che gli altri ridano delle nostre sofferenze. In questo modo non veniamo percepiti come una minaccia».
Sarà colpa di Darwin?
«Alcuni psicologi sottolineano che l’evoluzione ha sviluppato i centri del cervello preposti alle ricompense, lo striale dorsato. Uno dei miei studi preferiti, pubblicato all’inizio di quest’anno, e condotto a Lipsia da Natacha Mendes e altri, ha rilevato che i bambini fino a sei anni erano disposti a pagare in caramelle per vedere colpire pupazzi dall’aspetto cattivo, mentre si allarmavano se i pupazzi buoni venivano trattati allo stesso modo».
Ma, in fondo, perché ci sentiamo in colpa?
«La Schadenfreude ha infinite sfumature e motivazioni. Ci piace vedere la squadra rivale perdere, anche se la nostra non sta neppure giocando. Spesso apprezziamo la disavventura di qualcuno perché pensiamo che se la meriti».
Per esempio?
«Stamattina ho provato un brivido di gioia, quando un maleducato mi ha spinto sulle scale mobili, e poi nella foga ha perso il treno. Ma, naturalmente, la Schadenfreude è anche collegata strettamente all’invidia. Se ci è mai capitato di provare un accenno involontario di sorriso quando il nostro amico più fortunato di noi ci racconta di avere perso il lavoro – anche se siamo seriamente dispiaciuti per lui bene, stiamo gustando un momento di Schadenfreude».
Infatti, lei scrive che la Schadenfreude è ovunque.
«La gente prova emozioni di questo tipo da sempre ma ora è più evidente perché noi siamo più inclini a condividere le nostre reazioni con un emoji, o cliccando like su un post nei social. Ciò che un tempo sarebbe restato un furtivo e sornione sorriso tra amici, ora è visibile a tutti».
L’era di Internet ha definitivamente sdoganato la Schadenfreude?
«Se ne vede molta di più per questo, certo. In parte perché ci esprimiamo di più, come dicevo, e questo tende a farla percepire come una cosa normale. Ma soprattutto, ci piace vedere qualcuno incorrere nel giusto castigo. Online, ci confrontiamo con molta più ingiustizia di quando, per esempio, passeggiamo nel nostro quartiere. Gli psicologi sostengono che questo tipo di piacere dia dipendenza e forse oggi l’era digitale ci ha reso tutti drogati di senso di giustizia».
Lei scrive che anche il De Rerum Natura di Lucrezio è un esempio di Schadenfreude.
«Ci sono alcuni versi in cui Lucrezio descrive il piacere di osservare dalla riva una nave in preda ai marosi. Non perché ci piaccia vedere qualcun altro soffrire, ma perché assaporiamo l’esperienza di sapere da quale sofferenza siamo stati risparmiati. Oggi, forse Lucrezio descriverebbe incidenti stradali, e scriverebbe perché la gente rallenti in autostrada per osservarli meglio».
Un esempio di Schadenfreude che le ha dato molto piacere?
«Ho votato per restare nella Ue, e quindi quando la Brexit ha prevalso mi sono sentita scossa, ho provato rabbia. Dopo il referendum, se uno sostenitore del leave si rendeva idiota, si rivelava un bugiardo, o faceva una figuraccia in un’intervista, provavo un grande senso di trionfo: eppure sapevo che questo non cambiava molto le cose (Nietzsche definiva la Schadenfreude la rivincita dell’impotente). Ora, invece, mi capita di provare per la Brexit soltanto disperazione, vergogna e disgusto.
Lei ha scritto anche un Atlante delle emozioni umane. Malgrado la nostra apparente razionalità, sono queste a guidare le nostre vite?
«Non credo che razionalità ed emozioni siano opposte: prendono entrambi parte nel processo decisionale. Ecco perché è così importante capire le emozioni: in questo modo possiamo chiederci cosa stiamo provando, e se è a questi sentimenti che vogliamo veramente rispondere».
Lei insegna cultura del sonno alla Queen Mary University. Di cosa si tratta?
«Insegno la storia del sonno nel corso dei secoli in medicina, nella letteratura, nel teatro, nel cinema eccetera – dall’epidemia del sonno all’inizio del ventesimo secolo, fino al mito della Bella Addormentata, a film come Inception di Christopher Nolan».