la Repubblica, 19 marzo 2019
La mediocrità della letteratura italiana
Acerbi, troppo centrati su di sé, schiavi dei modelli americani e incuranti della propria tradizione. Dopo l’accusa sollevata dal presidente della Fondazione Bellonci, Giovanni Solimine, i critici giudicano la nostra nuova letteratura La letteratura italiana contemporanea è malata? La radiografia dice di sì. Tanto più se, inaspettatamente, l’esame arriva dallo Strega. Con le solite cautele e la diplomazia tipica della macchina del più importante premio letterario italiano, a dare l’allarme è stato non un arrabbiato critico militante, ma Giovanni Solimine, il presidente della Fondazione Bellonci. Proclamando i titoli delle 12 opere che corrono per la cinquina e poi per la vittoria del 4 luglio al Ninfeo di Villa Giulia, ha detto che, dei 57 libri segnalati dai giurati, «molti non erano adeguati a una competizione di questo livello». È la prima volta che il premio fa autocritica o, almeno, bacchetta esplicitamente il mondo delle lettere. Con Repubblica Solimine torna sul punto: parla di testi acerbi, con una «sovrabbondanza di schemi» che fanno pensare ad autori «da poco usciti da una scuola di scrittura» e non «sostenuti nel lavoro sul testo» dalle case editrici. Allargando il tiro si può andare oltre. E dire che si pubblica moltissima narrativa, decine di migliaia di titoli l’anno, non sempre con la necessaria cura. Il mercato chiede di lavorare in fretta, così chi ha talento rischia di finire in un meccanismo che brucia l’ispirazione. I giovani che si affacciano alla scrittura non conoscono abbastanza il nostro passato letterario e si affidano a modelli che vengono da fuori. I punti dolenti sono questi, e non solo. Lo notano i lettori attenti e lo confermano anche i critici letterari. Qualcosa, nelle patrie lettere, davvero non va. Premiati non eccellenti Filippo La Porta, critico e “amico della Domenica” ha visto bocciato il suo candidato, Nicola Manuppelli con Roma (Miraggi edizioni). Ma alla retorica del declino è contrario: «Quando muore un poeta o un romanziere si dice sempre, mestamente, “l’ultimo poeta”, l’"ultimo romanziere…” – spiega –. Ora, l’elenco dei vincitori del premio Strega degli anni ’60 e ’70, a parte alcuni titoli straordinari, è imbarazzante per pochezza. Ogni anno escono in Italia quattro o cinque libri importanti. Lo scorso anno c’erano i romanzi di Claudio Piersanti e Michele Vaccari, escluso dai 12 dello Strega, un diario narrativo di Roberto Casati, i racconti di Letizia Muratori. Non meno che, ad esempio, negli Stati Uniti o in Francia. Il punto è che questi tre, quatto libri sono sommersi dalla pletora di titoli sfornati da un’editoria che sembra non avere più filtri. Il compito dello Strega è orientare un lettore sempre più frastornato dalla bulimia editoriale. Credo che, su questo terreno, potrebbe rischiare qualcosa di più. È così antico e prestigioso che non dovrebbe temere di essere non dico “eversivo”, ma anche un poco audace, imprevedibile o perfino eccentrico nelle sue scelte». abbastanza basso, per vari motivi. Gli editori vogliono i romanzi perché vendono. Così anche libri che non sono romanzi ma ricordi d’infanzia, storielle, esperienze di vita vengono trasformati in romanzo. Forse bisognerebbe essere ancor più severi di Solimine: che in un anno non escano venti libri buoni mi sembra naturale. Il problema è che ne escono molte migliaia che sono velleitari, inutili. Da lettore vedo una scrittura molto incerta, grigia, referenziale. I giovani scrittori spesso hanno poche letture alle spalle e molto schiacciate sul presente. Trenta, quarant’anni fa chi si metteva a scrivere aveva una consapevolezza letteraria piuttosto spiccata. Oggi questa consapevolezza manca più spesso». Senza tradizione Un giudizio condiviso anche da Gilda Policastro, poetessa e scrittrice oltre che autrice di studi su Dante, Leopardi, Pasolini: «C’è un enorme scarto tra poeti e narratori. In Italia abbiamo grandi poeti, anche nella tradizione recente, ma non grandi romanzieri. E nella narrativa mainstream non c’è ricerca: la lingua è impostata, guarda spesso agli americani, a un orizzonte di senso che non si può riproporre nel nostro contesto. C’è un’anomalia storica e poi c’è un impoverimento specifico di questo momento: l’editoria non premia gli scrittori di stile. Penso a Einaudi che ha Franco Cordelli e non lo valorizza a sufficienza. O a Michele Mari e al suo Leggenda privata che non ha vinto premi maggiori. Così per Giorgio Falco o Vitaliano Trevisan. Nel passato anche lo Strega ha premiato grandi talenti, ma negli ultimi vent’anni fatico a ricordare i vincitori. Non mi interessano le trame ma la visione del mondo. Qual è la visione del mondo di Fedeltà di Marco Missiroli, uno dei titoli selezionati quest’anno? A me sfugge». Eccesso di autofiction Matteo Marchesini, finalista allo Strega nel 2013 con il romanzo Atti Mancati e autore, con il suo ultimo Casa di carte di un’analisi delle nostre lettere, invita a prendere «i premi per ciò che sono: organizzazione della cultura, non luogo del dibattito critico», specificando che «valori e i premi non sono sovrapponibili. Il che non vuol dire che non ci possano essere in gara libri belli e libri brutti». E torna, però, su un problema di prospettiva, di visione del mondo: «se devo individuare dei difetti tra i narratori attivi, diciamo tra i 30 e i 70 anni, è il fatto che c’è un io del personaggio narratore protagonista che è imponente, a volte ipertrofico, e questo io non è messo a confronto con un’idea diversa per cui la risultante dell’opera sia difforme dalla visione di quell’io. Molto spesso non c’è il contraddittorio. Quel personaggio, che assomiglia troppo allo scrittore e alla sua idea del mondo è sempre più nobile, più puro della realtà che incontra». Insomma, la nostra letteratura è davvero molto autoreferenziale e spesso mal scritta? Moriremo di autofiction? E il critico La Porta insinua un ulteriore dubbio: «Siamo sicuri che tra i 12 titoli scelti non siano capitati titoli mediocri?».