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 2019  marzo 18 Lunedì calendario

La nuova antologia di Montanelli

«In questo Paese, viviamo. È l’ora di guardarlo negli occhi. Ma lo è anche di guardarci negli occhi pure tra noi. A tutti, anche a chi scrive, faceva comodo pensare che tutto il marcio si annidasse nella classe politica, che bastasse buttare al macero quella per risanare l’Italia, e che per compiere questa operazione bastasse e possa ancora bastare qualche “regola” nuova. Non è così. E se persistiamo in questo autoinganno, al macero ci andiamo tutti».
La domanda è sempre: «Ma il Paese è meglio della classe politica?». Per Montanelli, la risposta era sottintesa: no, forse no. Ed ora, lasciato questo mondo dal 2001, dopo aver transitato in vita, con il naso turato, per decine di Italie diverse ma sempre uguali, il grande di Fucecchio si affaccia da una finestrella sul nostro presente.
La finestrella si intitola: Cialtroni. Da Garibaldi a Grillo gli italiani che disfecero l’Italia, antologia di ritratti in uscita per Rizzoli domani, a cura di Paolo Di Paolo con postfazione di Beppe Grillo. E lui, Indro, torna a metterci in guardia. Perché vide la Prima e la Seconda Repubblica, non fece in tempo a vedere la terza. Ma è come se la vedesse ora, nel ritrarre alcuni grandi del passato. Garibaldi, per esempio? «Un grosso pasticcione, ignorante…». Ma coraggioso. Onesto, sì. E fra i protagonisti del Risorgimento, «l’unico che seppe suscitare qualche entusiasmo popolare, anche se dovuto più ai lati spettacolari, pittoreschi e buffoneschi del suo modo di essere e di apparire (la papalina, il poncho eccetera) che non a delle vere qualità di capo». Il poncho, e oggi le felpe: per ovvie ragioni temporali qui non si possono forzare certi paralleli. Ma certo, le piroette sulfuree del grande che scrive inducono in tentazione.
Interrogativo
La domanda è sempre: «Ma il Paese è meglio della classe politica?». Risposta sottintesa: no
Tutti i «cialtroni» vaganti in secoli e sotto regimi diversi, riassunti da Montanelli nel ritratto di Umberto Bossi, si raccolgono «in questa Patria che sarà anche, come lui la chiama, “ladrona”, ed anche cialtrona, disordinata, zozza, di gamba lesta e facili, anzi facilissimi costumi; ma di cui ora ci accorgiamo all’improvviso che è pur sempre la nostra mamma; e ce ne accorgiamo grazie alle frustate che le infligge Bossi, in un linguaggio che ci fa quasi ricordare con nostalgia quello del Duce buonanima col suo “popolo di eroi, di santi e di navigatori” che ci aveva reso tutti sedentari, pantofolai e imboscati».
Eccoli, dunque, i grandi e piccoli italiani. Spadolini: «Se fosse nato gallo, nessuno gli avrebbe tolto di testa che il sole nasceva ogni mattina per sentirlo cantare». O Pertini: «Un uomo onesto, coraggioso e coerente con le proprie idee (anche perché ne aveva pochissime)». O Togliatti, che «non dava del tu neppure a sé stesso». Ecco Roberto Farinacci, segretario del Partito fascista, uno che non andò in guerra: «Rimasto a fare il capostazione a Cremona (Paolo Monelli, parafrasando il motto francese à la guerre comme à la guerre, “alla guerra come alla guerra”, aveva coniato per lui quello di à la gare comme à la gare, “alla stazione come alla stazione”), non aveva benemerenze da esibire. Se le procurò lì perché un giorno, lanciando bombe non contro gli abissini, ma in un laghetto per catturarne i pesci, una gli scoppiò in mano amputandogliela. Il che gli valse una medaglia d’argento e la qualifica di “invalido di guerra”, anche se la guerra l’aveva fatta ai pesci».
E tanti altri. Ora, la domanda è: come andrà a finire? Dalla sua finestrella Montanelli risponde: forse, «dolcemente, in stato di anestesia, torneremo ad essere quella “terra di morti, abitata da un pulviscolo umano” che Montaigne aveva descritto tre secoli or sono. O forse no: rimarremo quello che siamo: un conglomerato impegnato a discutere, con grandi parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giochi di potere e d’interesse. L’Italia è finita». Ma sembra pensarlo come lo pensava Giuseppe Prezzolini: sperando, disperatamente sperando, di essere smentito.