il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2019
Caso Imane, il veleno che viene dall’antica Roma
L’assassinio di una persona attraverso il veleno costituisce un’arte antichissima. Nell’antica Roma, in particolare, la memoria collettiva ha registrato costantemente casi di veneficio perpetrati da donne sino a renderle indiscusse protagoniste di eclatanti casi giudiziari e, conseguentemente, a far percepire il veneficio come una pratica criminale squisitamente femminile. Nei documenti antichi pervenutici si sono conservate le registrazioni di diversi venefici, come quello del 151 a.C. di cui parlano Livio (Periochae 48) e Valerio Massimo (Factorum et dictorum memorabilium 6.3.8) per la valenza politica del caso: due donne, accusate di aver avvelenato i loro mariti, ex consoli, furono giustiziate per via sommaria. Secondo la versione raccolta da Valerio Massimo, “Publicia, e parimenti Licinia, che avevano ucciso col veleno Postumio Albino e Claudio Asello, rispettivi loro mariti furono strangolate dai propri parenti: i quali, severissimi com’erano, ritennero che, trattandosi di un delitto così evidente, non si dovesse attendere il lungo lasso di tempo che sarebbe intercorso prima della celebrazione del processo. E così, come sarebbero stati pronti a difenderle, se innocenti, si affrettarono a punirle colpevoli”. Oggi, alla ribalta della cronaca nera italiana vi è il caso oscuro e inquietante di Imane Fadil, giovane modella, ma soprattutto teste chiave del processo sul caso “Ruby”. Secondo gli investigatori, una delle possibili cause della morte potrebbe essere per sostanze radioattive (cobalto si dice). Nuove sostanze tossiche e nuovi venefici; non sappiamo se la mano che ha sparso il veleno sia di un uomo o di una donna, una cosa è certa: oggi come nel passato, le donne restano protagoniste e vittime, avvelenatrici o avvelenate che siano.