il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2019
I conti in rosso della politica
C’è chi come Ugo Sposetti, storico tesoriere prima del Pci e poi di Ds, è costretto a vendere o meglio “alienare” il celebre dipinto I Funerali di Togliatti di Renato Guttuso. Il tutto per racimolare un centinaio di migliaia di euro di plusvalenza che serviranno per pagare il Tfr all’unico dipendente rimasto dei Ds. C’è chi, come Silvio Berlusconi, ha dovuto garantire con sue fidejussioni personali il debito da oltre 100 milioni di euro che affligge da anni Forza Italia e che le banche si sono rifiutate di rifinanziare senza garanzie dirette del suo leader. Poi c’è Laura Boldrini: da presidente della Camera ha fatto del taglio dei costi della politica il suo vessillo personale, ma non sa spiegare all’intervistatore cosa ci facciano 385 milioni di euro di avanzo di amministrazione nel bilancio 2017 di Montecitorio. Meglio, spiega che quel tesoretto corposo è un fondo di garanzia che sta lì, non viene speso, “perché dovesse succedere alla Camera di dover far fronte a delle spese aggiuntive c’è quello, la Camera ha una sua amministrazione”. Peccato che quel denaro valga il 40% dell’intero bilancio di Montecitorio la cui spesa sfiora ogni anno il miliardo di euro. E che forse se si vuole dare un segnale forte di moralizzazione della politica quel denaro potrebbe essere restituito in buona parte al traballante bilancio dello Stato che è comunque il finanziatore unico del Parlamento.
Nell’inchiesta di Report c’è questo e molto altro. Il programma esordisce questa sera su Raitre alle 21.20 nella nuova stagione con un’inchiesta sui bilanci dei partiti, nella nuova era dell’agorà virtuale e su come vivono e meglio sopravvivono alla fine del finanziamento pubblico. L’inchiesta condotta da Bernardo Iovene con la collaborazione di Michela Mancini, si muove lungo un pendolo che oscilla tra le miserie e le fortune di chi oggi fa politica dentro il vecchio tessuto connettivo dei partiti organizzati, stretti tra l’arrembante dominio del web e della comunicazione via smartphone e tablet e le ristrettezze dei conti, dopo che dal 2013 è venuto meno il vecchio sistema del finanziamento pubblico. La nuova vita dei partiti ha fatto molta fatica ad adeguarsi al cambio di rotta copernicano. Basta pensare che nell’arco di vent’anni il contributo pubblico ai partiti arriva quasi a 2 miliardi, una media di 100 milioni l’anno che finivano nelle casse della politica. Ad ogni competizione elettorale, che fosse nazionale, europea o locale i partiti sapevano che sarebbe piovuto automaticamente denaro nelle loro casse, sulla base dei voti conseguiti. Più voti, più denaro.
Ora la stampella per pagare stipendi dei dipendenti, affitti delle sedi, bollette e spese per le manifestazioni è affidata al buon cuore dei cittadini attraverso la scelta del 2 per mille nella dichiarazione dei redditi. Scelta non obbligata, del tutto facoltativa e che lascia i partiti (tutti) nell’alea dei desiderata degli italiani. Formula ineccepibile, che sostituisce il gradimento dell’elettorato al sostegno automatico dello Stato, ma che ha mandato a gambe all’aria i conti dei partiti. Basti pensare che le entrate, tolti i tesseramenti, le donazioni dei militanti e i contributi versati dai parlamentari, sono crollate. Il 2 per mille, partito in sordina nel 2014 con poche migliaia di euro, nel 2017 ha visto affluire nelle casse dei partiti solo 14 milioni. Un taglio dell’80 per cento secco delle entrate. Una cura dimagrante davvero dura, che ha aperto voragini nei conti.
Report e i suoi inviati raccontano come il Pd abbia generato perdite, tra il 2013 e il 2017, per 19 milioni, Forza Italia sempre tra il 2013 e il 2017 ha avuto un passivo di 30 milioni e la Lega Nord ha chiuso i bilanci degli ultimi 5 anni con 28 milioni di perdite cumulate. A pagare sono innanzitutto i dipendenti, messi in cassa integrazione e infine licenziati; poi ci sono i tagli per l’attività sul territorio. La troupe di Report, nel suo viaggio-inchiesta, documenta la fine della politica come agorà pubblica. Sempre meno sedi, una presenza sul territorio ormai inesistente, pochi soldi o meglio nulla per spesare iniziative pubbliche. La politica come luogo e spazio d’incontro tra persone in carne e ossa di fatto non c’è più. Sostituita dalla comunicazione diretta e impersonale delle chat, dei social dove ormai solo lì si costruisce il consenso.
Emblematica l’affermazione di un esponente locale di Forza Italia che nell’intera Emilia Romagna non ha neppure una sede: “Se oggi dovessi pensare a qualcosa di più prossimo alla sede, le indicherei il mio cellulare”. O l’immagine della cassaforte aperta e vuota alle spalle del presidente del Gruppo Lega Nord dell’Emilia Romagna, simbolo del nulla pneumatico: “Questo – indicando la cassaforte mestamente vuota e aperta dice l’intervistato – è un rimasuglio di prima, era già qui quando siamo arrivati, questo spazio prima era di Forza Italia”.
Le immagini del servizio fotografano l’unica sede della Lega in provincia di Bologna, a Zola Predosa. Chiusa, abbandonata con i lucchetti arrugginiti. “Gli hanno staccato la luce, non pagano. Sono mesi che non vedo più nessuno”, dice un passante. Chi resiste sul territorio anche se a fatica è il Pd. La sua lunga tradizione di partito organizzato e capillare si vede ancora. Ma sembra un tramonto ineluttabile. Il Pd mantiene i suoi circoli sul territorio, ospitati negli immobili passati dalle insegne dei Ds a quello delle 60 Fondazioni cui è stato conferito, su idea geniale e spregiudicata del tesoriere Sposetti, l’immenso patrimonio immobiliare dell’ex Pci. Il tutto per evitare che le centinaia di edifici e appartamenti del partito fossero pignorati dalle banche per pagare i debiti lasciati sul campo. Ma il servizio documenta il paradosso. Il Pd spesso non paga o è in ritardo sugli affitti e così le Fondazioni passano allo sfratto. Una nemesi storica: quel che resta dell’antico Pci cacciato dalle sue sedi storiche dai nuovi proprietari, quelle stesse Fondazioni riunite sotto il cappello dell’Associazione Enrico Berlinguer presieduta proprio da Sposetti. Quello Sposetti che non solo è costretto a vendere il quadro di Guttuso per fare cassa ma che tuttora firma i bilanci dei Ds scomparsi da 10 anni. Bilanci dove non ci sono più attività da due lustri e dove ci sono solo debiti. Ben 150 milioni che i Ds non hanno mai rimborsato ai creditori. Sposetti mestamente afferma che non può liquidare i Ds finchè ha in carico un dipendente, è in aspettativa dice, appena rientrerà posso pensare di chiudere. La politica, quella ricca, ormai dai partiti è passata ai parlamentari. Il 2 per mille fa affluire pochi milioni di euro nelle casse esangui dei partiti e così il forziere è ora nelle mani dei gruppi parlamentari. Tra Camera e Senato, nelle casse dei gruppi, ogni anno finiscono 51 milioni di euro. La vera forza economica della politica ormai si è trasferita in Parlamento. Sono deputati e senatori i nuovi ricchi della politica. Certo, ogni partito pretende lo storno di parte dello stipendio al partito. I più virtuosi sono i parlamentari di Sinistra italiana. Girano al partito 3.500 euro al mese; poi i leghisti, 3.000 euro al mese; seguono il Pd (1.500 euro) Fratelli d’Italia (mille euro) Forza Italia con 900 euro. Infine i 5Stelle: 300 euro al mese alla piattaforma Rousseau più 2mila euro al fondo per il micro-credito. Ma è un sacrificio sopportabile. Tra indennità e rimborsi, documenta Report, ogni parlamentare si ritrova in tasca 13.400 euro netti al mese cui vanno tolti gli storni al partito. La carrellata delle domande ai parlamentari su quanto guadagnano è surreale: chi dice 9.000, chi 3.250, chi 12mila, chi 7.500-8000 fino all’ex delfino di Matteo Renzi, Luca Lotti che chiede a un collega e poi risponde, non lo so. Ma la vera ricchezza sta anche nel Palazzo.
Una ricchezza nascosta che sta nelle pieghe del bilancio di Montecitorio. Nel 2017 la Camera dei deputati aveva un avanzo di amministrazione di ben 385 milioni. Di fatto il frutto dei risparmi cumulati negli anni e che salgono ogni anno. Nel 2012 infatti il tesoretto contante di Montecitorio era di “soli” 234 milioni. Di fatto è come se l’istituzione Camera si comportasse come un’azienda privata che fa utili e li accantona. Non dovrebbe essere così per un’istituzione pubblica finanziata, ogni anno, da denaro dello Stato per 993 milioni, fino a 5 anni fa; scesi ora a 943 milioni l’anno. Questa è la dotazione garantita dal bilancio dello Stato.
Certo l’ex presidente Laura Boldrini ha fatto della spending review la sua battaglia: e in effetti in questi anni la dotazione è scesa di 50 milioni l’anno e sono stati restituiti almeno altri 200 milioni. Ma quello che è apparso ed è stato veicolato come uno sforzo titanico è stato quasi un buffetto. L’avanzo di cassa non ha fatto che aumentare fino alla cifra record di 385 milioni, il 40% dell’intera dotazione annua. Che se ne fa la Camera di così tanto denaro immobilizzato, dato che la dotazione da quasi un miliardo basta e avanza per finanziare stipendi e attività di parlamentari e dipendenti, più le pensioni di ex parlamentari ed ex dipendenti? Un bel mistero, tanto che lo stesso nuovo presidente, Roberto Fico, intervistato da Iovene è rimasto sorpreso dalla notizia. Soldi certo non spesi, ma che forse se si vuole un dare un segnale forte di dimagrimento dei costi della politica, potrebbero essere restituiti al loro padrone, cioè lo Stato, cioè i contribuenti italiani.