Corriere della Sera, 18 marzo 2019
Intervista a Pier Silvio Berlusconi
«Con un Paese in recessione tecnica, con una produzione industriale in netto calo e con un mercato della pubblicità che arretra, c’è di che essere orgogliosi per il bilancio 2018 che abbiamo appena approvato. E se il governo non dico ci stesse a fianco, non dico ci sostenesse, ma almeno non ostacolasse le poche grandi aziende rimaste italiane, il Paese potrebbe trarne giovamento in termini di sviluppo e occupazione». Pier Silvio Berlusconi nel quartier generale di Cologno Monzese è cauto ma diretto come sempre. Ormai da vent’anni si trova a capo di uno dei maggiori gruppi tv in Europa. E sa che il mercato dei contenuti è uno dei più difficili e globali. Non solo per la concorrenza dei colossi internazionali qui in Europa, basti pensare alla battaglia tra le due americane Comcast e Disney per la conquista di Sky, ma anche ai nuovi entranti come Netflix e Amazon Prime senza dimenticare giganti come Facebook, Google che controlla anche YouTube, e Apple che sta per entrare nel mercato dello streaming e che ha una cassa di qualche centinaio di miliardi di dollari.
Non siete un po’ spaventati, intimoriti da dover competere con chi vale dieci, venti volte Mediaset?
«Spaventati no, siamo consapevoli che se vogliamo avere un futuro di sviluppo è indispensabile cambiare passo, cambiare dimensione. In realtà è più preoccupante la situazione economica italiana e il conseguente calo del mercato pubblicitario. Detto questo, noi non ci siamo mai fermati, abbiamo continuato a spingere e oggi siamo più solidi che mai. Nel 2018, in un mercato che è calato ancora, i nostri ricavi pubblicitari sono cresciuti e abbiamo raggiunto il 39% di quota. E oggi per un editore italiano aver realizzato 471 milioni di utile netto e dimezzato l’indebitamento è una soddisfazione incredibile. Ma so già quale sarà la sua prossima domanda».
Vediamo: utili sì ma grazie alle plusvalenze…
«Ecco, immaginavo. E allora togliamole quelle plusvalenze, togliamo tutte le poste straordinarie: i profitti sono stati comunque circa 100 milioni, il doppio di quello che avevamo garantito nell’ambizioso piano presentato a Londra nel 2017. Tanto che abbiamo deciso di condividere questo momento positivo con tutti i nostri lavoratori, riconoscendo loro un consistente premio extra».
Di quanto?
«Consistente».
Restano le cessioni, tipo Premium.
«Più che cessioni direi che l’accordo con Sky ha garantito a Premium un futuro con una veste più adeguata ai tempi digitali e senza impatti sull’occupazione. Nel frattempo abbiamo acquisito un’altra radio, Radio Montecarlo, lanciato due nuovi canali tematici e l’innovativa piattaforma digitale MediasetPlay, trasmesso con grande successo un Campionato del mondo di calcio al quale nessuno credeva…»
Venduto Ei Towers…
«No, non è così. Avevamo il 40% di Ei Towers e ora, grazie all’Opa e alla partnership con il fondo F2i, abbiamo concretizzato del valore creato industrialmente. E comunque mantenuto il 40% di una nuova società diventata operatore indipendente, status che la rende molto più agile per sviluppi futuri».
E cioè perseguite ancora il progetto delle torri di trasmissione che volevate lanciare con l’Opa su Rai Way?
«Ecco, quello è stato l’esempio perfetto di “governi che ostacolano”. All’epoca fu Renzi a bloccare l’operazione come se tralicci e terreni fossero strategici. Ma un conto sono le frequenze tv in mano ai singoli operatori, un conto sono le reti telefoniche che trasportano dati e informazioni, nel nostro caso invece erano infrastrutture fisiche, torri metalliche… Di cosa stiamo parlando?».
E quindi?
«Quindi occasione persa per noi, per la Rai e per le casse dello Stato. Ma chi fa impresa veramente sa che si devono trovare sempre nuove strade. E oggi EiTowers ha garantito un futuro di sviluppo e Mediaset può pensare a investire su attività più vicine al core business, anche in ambito internazionale».
È per questo che non avete distribuito dividendi, per mettere fieno in cascina in previsione di una crescita all’estero?
«La questione non è solo investire e con quale impostazione economico-finanziaria, il grande lavoro sta nel riuscire a costruire un nuovo modello industriale, un modello di business da media company internazionale che crei valore e sviluppo facendo di Mediaset l’unico broadcaster free paneuropeo… Già siamo leader in due paesi, Italia e Spagna».
Lasciate l’Italia?
«Al contrario. Una dimensione ancora più internazionale ci permetterà di aumentare gli investimenti in Italia e in Spagna, dove siamo radicati, dove vogliamo restare contribuendo ad allargare ulteriormente l’industria dei contenuti».
Ma lo farete da soli o con altri partner?
«Ripeto: quello che è fondamentale è trovare la quadra industriale per creare sviluppo, occupazione e valore. Certo, conta la solidità finanziaria ma è fondamentale anche avere alle spalle un azionista stabile come Fininvest».
Ma avete trattative in corso?
Il governo
Possiamo difenderci solo crescendo, ma i governi devono stare al fianco delle imprese nazionali
«Ovviamente si parla con tutti».
Ma quando potrebbe concretizzarsi l’operazione?
«Prima si fa, meglio è. I competitor non aspettano».
Avete in mente dei Paesi precisi, la Germania, la Gran Bretagna?
«Noi siamo già in Italia e Spagna, non è difficile immaginare quali altri Paesi potrebbero fare la differenza».
Quindi battaglia a tutto campo contro Netflix, Amazon…
«No, noi facciamo un lavoro diverso. Siamo tv gratuite, calde, in diretta, costruiamo prodotti nazionali su misura per i singoli paesi. Per investimenti pubblicitari, per numero di spettatori e per peso editoriale, la tv generalista rimarrà sempre centrale».
Ma i colossi come Google e Facebook si muovono a tutto campo.
«E pure senza regole. Le do qualche cifra. Il mercato della pubblicità in Italia, prima della crisi era arrivato a 9 miliardi di euro. Oggi è calato a poco più di 6 miliardi. A cui però vanno aggiunti circa 2,5-3 miliardi, che sono i ricavi search e social, cioè dei colossi di Internet. Investimenti pubblicitari italiani sottratti agli editori italiani».
È il dramma di tutti gli editori.
«È la globalizzazione, d’accordo. Ma se almeno i nuovi soggetti creassero occupazione e pagassero le tasse nei singoli paesi… È anche per questo che noi europei e noi italiani possiamo difenderci solo crescendo. Ma i governi devono stare al fianco delle imprese nazionali».
Anche Vivendi è europea…
«La fermo subito. Vivendi ci ha fatto un danno enorme. E probabilmente, visto come stanno andando le cose in Italia, l’ha fatto anche a se stessa. Ma io, come avrà capito, preferisco guardare avanti».
Che significa, che vi state parlando?
«No. Significa che se ci dovesse essere un accordo proficuo per tutti, io ne sarei contento. Ma per ora siamo in causa».
E quindi storia finita anche con Tim?
«L’Italia ha perso l’attimo. Avrebbe avuto molto senso un decennio fa o almeno prima dell’arrivo dei grandi concorrenti internazionali, sia nella telefonia sia nell’offerta streaming».
Pensando all’Italia, l’espansione all’estero può significare anche diversificare il rischio Paese?
«Prima di tutto contano le dimensioni, è innegabile che in Italia la situazione politica è in forte movimento, ma lo è anche in Gran Bretagna e in tutta Europa, Francia compresa. Diversificare il rischio comunque aiuta».
Ma in Italia in particolare, il governo vede una maggioranza singolare e assolutamente imprevista prima delle elezioni del 4 marzo…
«Le ripeto: a noi basta che i governi non ci ostacolino. Con l’Opa Rai Way avremmo dato 1 miliardo di euro allo Stato. Rifiutati. E oggi la Finanziaria prevede 3 miliardi di euro di privatizzazioni, di cui per ora non c’è traccia».