Libero, 17 marzo 2019
Storia del giudice più pigro d’Italia
Dopo anni di estenuante processo la domanda fatidica che viene rivolta all’avvocato è la seguente: “adesso quanto ci vorrà per la sentenza?”. E lì casca l’asino perché predire il futuro quando in ballo c’è lo zelo della mano giudiziaria è un bel grattacapo: ad impossibilia nemo tenetur! Con l’esperienza ho imparato una risposta canonica che mi mette al riparo da bugie: «Meglio aver ragione nel lungo che torto nel breve». Il cliente annuisce e se ne va soddisfatto. Meglio così, perché l’unica certezza del processo civile sono i tempi lunghi, mentre per gli esiti mutuo da Massimo Fini un titolo emblematico: la ragione aveva torto! Lunghi quanto? Macroscopici, sebbene tutti abbiano dimenticato Matteo Renzi che prometteva il fantaprocesso civile in un anno. Un parametro interessante lo fornisce il Csm nel giudizio disciplinare contro una toga di un tribunale del centro Italia rea di far attendere le sue decisioni anche oltre 5 anni: assolto! Nemmeno una tiratina d’orecchie al giudice in questione, sebbene il Procuratore generale della Corte di cassazione ritenesse i ritardi «gravi, ingiustificati e pregiudizievoli del diritto delle Parti ad ottenere la definizione in tempi ragionevoli del processo in palese violazione sia dell’art. 111 Costituzione sia dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo». Il presidente del tribunale aveva stilato una tabellina di marcia per il magistrato più pigro d’Italia per smaltire sentenze e ordinanze, esentandolo dalle attività d’udienza. Niente da fare: l’unica forma di zelo di questo superimpiegato dello stato retribuito con i nostri quattrini è la pigrizia! Il Csm, l’organo di autogoverno della magistratura, ha ritenuto la lentezza della toga preminente rispetto ai diritti dei malcapitati che hanno la sfortuna di finire nella sua aula d’udienza. Un segnale alla categoria: chi va piano, va sano e va lontano! Con il medesimo parametro temporale chiuderebbe qualsiasi studio legale, perchè noi avvocati, portatori d’interessi e stipendi privati, rispondiamo all’unico criterio vigente in ambito di concorrenza e mercato: l’olio di gomito. I termini sono perentori per noi, cioè per i cittadini, ordinatori per i giudici e, se sbagliamo, paghiamo come qualsiasi lavoratore. Purtroppo la politica non riforma la magistratura con criteri aziendalistici di efficienza e con pronunce simili il Csm lascia intuire che non esiste una volontà interna di migliorarsi. Qualsiasi datore di lavoro licenzierebbe un simile scansafatiche, mentre questo fannullone rimane al suo posto unicamente sfruttando una posizione di privilegio ai limiti della pubblica decenza. Il Csm si è appiattito sulla linea governativa del reddito di cittadinanza: lavorare e morire si fa sempre a tempo!