Libero, 17 marzo 2019
Enzo Prosperi, da Fininvest alla carità
È tornato. Più incazzato di prima. Enzo Prosperi si è piazzato nello stesso punto di cinque anni fa, di fronte all’ingresso della Rinascente, e come allora riceve nel suo «ufficio» di strada: tutti i giorni dal mattino alla sera. Ieri, che era sabato, aveva il pienone attorno. Comitive di giapponesi a immortalarlo con le loro macchine fotografiche di ultima generazione; capannelli di curiosi, turisti in cerca di decifrare il contenuto del cartello appiccicato con lo scotch sull’asfalto ai suoi piedi, cinofili di ogni età in fila per allungare una carezza a Boris e a Lolly, i due compagni di vita di questo singolare barbone di Milano. Quando arriviamo e lo avvertiamo delle nostre dodici chiamate senza risposta, Prosperi non si scompone: «Chiedo scusa ma come vede stavo ricevendo clienti qui nel mio ufficio. È appena andato via un importante esponente del Pd». Classe 1952, eloquio forbito, l’uomo ha una storia da raccontare lunga trent’anni, da quando nell’89 decise di mettersi in proprio creando una società di produzione specializzata nel settore medico-scientifico. Si era ficcato in testa, Enzo, di costruire un sistema innovativo per filmare il lavoro attorno al tavolo della sala operatoria in modo che si potessero divulgare documentari in stile americano, come poi con gli anni è avvenuto, ma non certo con le sue attrezzature.
FORMAZIONE E CULTURA
«Io sono un tecnico, mi sono sempre occupato di immagini e di sistemi di comunicazione», spiega ricordando le sue esperienze in tv importanti come Italia 1, che all’inizio si chiamava Antenna nord, l’editore era Edilio Rusconi e Silvio Berlusconi sarebbe arrivato dopo insieme a Rete4 e al boom delle emittenti private. «Ho cominciato come scenotecnico», continua, «costruivo le scene perché avevo lavorato in teatro molto tempo, poi uno scenografo di Italia1 all’epoca mi chiese se mi fosse piaciuto andare lì a lavorare e dal momento che io avevo collaborato con tutti i più grandi del teatro italiano, ho detto sì. Sono stato lì come libero professionista per anni finché mi hanno proposto di essere assunto e andai alle dipendenze di Rusconi. Era il ’77». È vero che è stato dirigente Fininvest? «Sì. Quando sono entrato in Fininvest ero il sesto, quando sono uscito eravamo in 5mila. Sono stato uno dei pionieri della televisione italiana». Dai vertici delle tv private a clochard in piazza Duomo. Sempre rigoramente in giacca e cravatta. Con la camicia stirata («quando posso, se ho i soldi, vado in tintoria») e l’aspetto curato di chi sa che, pure fuori casa, sul marciapiede, l’abito conta. La vita di questo 67enne lombardo è tutta un saliscendi, una carrellata di colpi del destino e di ingiustizie che avrebbero steso un toro e, in effetti, nel suo caso le discese sono decisamente più numerose delle salite. A parte la battaglia con due tumori, per cui dovette lasciare il primo lavoro, un magro assegno d’invalidità civile continuamente decurtato, questo imprenditore è passato dalle telecamere alla società di produzione per documentari scientifici (abortita quando l’allora ministro della Salute De Lorenzo tagliò i fondi alla ricerca), all’apertura di un supermercato in Toscana poi fallito, al lavoro come autista di camion per portare a casa la pagnotta, fino a una condanna ai servizi sociali e alla carità in strada, come aveva fatto nel 2014. Già cinque anni fa, infatti, l’ex dirigente si era messo in piazza Duomo con la sua sedia di plastica da campeggio, lo zainetto nero, il barattolo per le offerte e l’immancabile ciotola dell’acqua per il chow-chow Boris e la pechinese Lolly. Anche allora era elegantissimo perché «potranno togliermi tutto, ma non la dignità», scandisce, e a chi gli si avvicinava raccontava della sua situazione di lavoratore azzoppato dalla burocrazia e dalla malagiustizia. Anche allora dalla sua «scrivania all’aria aperta» dispensava consigli a tanti, ma adesso c’è un po’ di rabbia in più perché «non uno che mi dica: Enzo, ho una soluzione per te» e perfino la famiglia si è allontanata. In passato Prosperi, di nome ma non di fatto, si è fidato delle persone sbagliate, è stato truffato da chi doveva difenderlo, ha perso centinaia di milioni di vecchie lire e quasi tutte le cause che aveva intentato per riavere indietro i suoi soldi. «Si figuri che secondo la giustizia italiana io dovevo pagare chi mi ha mandato in rovina». Un lungo bollettino di sfortune.
L’ULTIMA SPERANZA
Ultima, in ordine di tempo, la sorpresa dello scorso gennaio. Di quando, dopo un periodo in Toscana a trovare i nipotini, ha scoperto che, a causa della posta non ritirata per alcuni giorni, gli era stato tolto il reddito d’inclusione, «quei pochi quattrini che mi servivano per fare la spesa e far mangiare i miei cani». Lui si è infuriato ed è andato in Comune a farsi le proprie ragioni. «Ci vuole tempo», hanno allargato le braccia. «Ripassi a marzo». Poi marzo è arrivato, ma non è successo niente per questo dal 7 si è rimesso davanti alla Rinascente, stavolta con un cartello che parla chiaro: «Vergogna!! Italiano a cui è stato revocato il Rei (reddito d’inclusione), tenuto dai servizi sociali 24 giorni senza mangiare in attesa dell’elemosina». Quanto si fermerà qui? «Non lo so. Ma voglio che si conosca la situazione di chi ha sempre lavorato e non ha nessun aiuto dallo Stato. Adesso c’è questo reddito di cittadinanza fatto dai grillini: benissimo, voglio vedere cosa s’inventano pur di non darmelo». C’è ancora un filo di speranza, insomma. «Nel 2012 a causa della crisi si suicidavano due imprenditori al giorno», ricorda. «Io ho tentato per quattro volte, l’ultima è stata la settimana scorsa sotto a un bus. Solo che l’autista ha frenato».