Il Messaggero, 17 marzo 2019
Intervista al fotografo Andrea Colzani
«Sono sempre stato uno scappato di casa. Mi mandano in giro a fare foto proprio per questo: mi muovo da solo, con la mia attrezzatura, in giro per l’Italia e per il mondo». Si presenta così Andrea Colzani, quarantacinquenne ritrattista di celebrità: dai musicisti di Sanremo alle modelle di Shangai. Capelli lunghi da nativo americano, accento comasco e uno stile ben definito: flash, scatti ravvicinati e volti mai in posa classica. Il suo contro-curriculum, fatto di imprese assurde o fatiche incredibili, vale più dei cenni biografici classici.
Nel 2010, durante la settimana di Sanremo, ha messo le catene a Emanuele Filiberto di Savoia, Pupo e Luca Canonici. La loro canzone, Italia amore mio, era davvero così brutta?
«Seguivo il Festival per Vanity Fair, e ogni anno ci inventavamo qualcosa di nuovo. Giochi, gadget. Ho comprato io le catene. Il trio era divertito, peccato che al momento di liberarli ci siamo accorti di aver perso le chiavi del lucchetto. Panico. Il principe era nostro prigioniero, ha dovuto sfilarsi a fatica la catena».
Poi ha picchiato Scanu.
«C’è una foto che lo ritrae come un criminale appena arrestato. Ho bruciato del sughero e l’ho truccato. In due minuti avevamo lo scatto perfetto».
Se lo sarebbe mai aspettato? Intendo, ritrovarsi a realizzare queste immagini?
«La fotografia è come una casa. Appena ci sono entrato mi sono sentito bene. È la cosa giusta, quella che fa per me. Sono un professionista, ma provo sempre a divertirmi».
Domanda classica: come ha iniziato?
«Risposta insolita: venivo da una famiglia semplice, i miei nonni contadini, mio padre falegname. Sono cresciuto in mezzo ai trucioli. Dopo il liceo artistico volevo andare all’Accademia di Brera, Belle arti. Mia mamma non voleva, diceva diventerai un madonnaro. Così ho giocato d’astuzia: ho portato a casa un volantino per un corso di fotografia allo Ied, pensando fosse troppo costoso per loro. Ma i miei mi hanno preso in contropiede: Dai prova, vedrai che ti piacerà».
E le è piaciuto, alla fine.
«Mi è piaciuto dal primo minuto della prima lezione di storia della fotografia. E poi quando sono entrato in una camera oscura, bam, era fatta per sempre. Non avevo ancora mai pensato a dove volevo andare, mi sono ritrovato dove volevo essere».
Quando, invece, ha capito che questa poteva diventare una professione vera?
«Negli anni 90 ho iniziato a fare l’assistente per i fotografi del gruppo Condé Nast. Il salto, però, è stato nel 2006. In occasione dei Mondiali di calcio ho girato la Germania per fare ritratti ai tifosi. Senza un soldo, dormendo in auto. Al ritorno ho proposto il servizio a Vanity Fair e l’hanno accettato. Ecco, lì ho capito che stavo prendendo la strada giusta».
Molte sue foto sono così ravvicinate al soggetto da non lasciare vedere mai lo sfondo, anche quando c’è. Non solo, c’è spesso anche un riquadro nero intorno. Come mai?
«Sono affezionato a questo stile. Sono per un approccio da studio ma amo l’analogico. In passato giravo con una Hasselblad, il mio rullo 120 e il ring flash (flash rotondo) con il generatore. Senza assistente luci. E poi i miei maestri sono Richard Avedon, Albert Watson. Il riquadro nero è un modo per riportarmi sempre all’analogico, quando fotografare era diverso».
La solita nostalgia?
«Era davvero diverso: il fotografo scattava, e solo lui sapeva cosa stava succedendo dentro la macchina. Il soggetto doveva aspettare il risultato dopo lo sviluppo».
Con il digitale, invece?
«Ora ritrovo il soggetto dietro lo schermo, subito a vedere il risultato».
Chi è un soggetto con cui non si è proprio trovato?
«Facile. Io e l’Ucraina condividiamo la stessa lista nera».
Al Bano? Che ha fatto di male?
«Diciamo che non siamo fatti l’uno per l’altro. Prima di andare a Sanremo, non avevo mai ascoltato un minuto della kermesse. Sono più per Mick Jagger, gli Aerosmith».
Uno con cui invece è andata benissimo?
«Una: Patty Pravo. Al mio primo Sanremo. Era in sala stampa, tutti facevano foto. Io rimanevo immobile. Ha mandato via tutti, tranne me, chiedendomi perché non stavo scattando. Aspettavo il momento giusto. Tu sì che mi piaci, ha risposto».
Ha una musa?
«Con Malika Ayane abbiamo fatto di tutto. Ispirati da un ritratto di Whoopi Goldberg scattato da Annie Leibovitz, abbiamo immerso Malika in una vasca piena di latte. Anzi, per risparmiare erano 5 litri di latte allungati con l’acqua di rubinetto. La verità, però, è che mi piace fotografare più gli uomini, è più facile imbruttirli, scovare particolarità del volto».
Nomi?
«A New York ho incontrato Harvey Keitel, l’attore che fa Mr Wolfe in Pulp Fiction. Un idolo. Poi Toscani, l’ho ritratto tutto sudato. Ma anche Lagerfeld, appena scomparso. Un professionista incredibile. Non ci siamo parlati, ma con gli sguardi mi ha fatto capire che si affidava a me».
Prendiamo due sue foto agli antipodi: il mega ritratto dei cantanti dentro una stanza da matti, e il ritratto di Alda Merini. Cosa hanno in comune?
«Il primo l’ho scattato a spese mie, volevo creare una stanza dei matti, entropia pura. Alda Merini l’ho scattata senza nessun committente. Son andato a casa sua ed era un luogo altrettanto entropico. Lei mi diceva, scherzando, fammi bella come le modelle. In entrambi i casi, ci è voluto un po’ di coraggio per andare dritti con le proprie idee».
È questo l’insegnamento?
«No, voglio solo dire che collaborare è intelligente, ma farsi limitare meno».
E allora cosa insegnerebbe oggi se dovesse tornare, come professore, sui banchi di scuola?
«Prendete una mela».
Prego?
«Prendete una mela e fotografatela in tutti i modi possibili. Marcia. Morsicata. Dall’alto. Di lato. Imparate cosa significa avere punto di vista e trovate il vostro. Davvero, basta una mela».