Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2019
A tu per tu con Ilaria Capua
Un piccolo vezzo, pieno di modernità. «Adoro usare gli orecchini spaiati – dice la scienziata Ilaria Capua – le diversità sono ricchezza». La virologa di fama internazionale accompagna con gesto misurato i capelli dietro l’orecchio destro. Al lobo porta un orecchino d’oro bianco che sembra un mazzetto di piccoli stami coronati di brillanti: «Questo era della mia nonna paterna», mentre a sinistra sfoggia una perla con un cerchietto d’oro giallo. La scienziata è in Italia per alcune conferenze e per ricevere il dottorato honoris causa dall’ateneo di Perugia dove tutto è iniziato. «Fate caso, ad esempio, al grifo – e torna al tema della diversità -. Il simbolo della città è una creatura maestosa, per metà aquila e per metà leone, e rappresenta l’immenso potenziale della diversità, che si nutre di apertura, di mancanza di pregiudizi e del valore intrinseco del confronto».
È una giornata di sole a Perugia, quel sole che addolcisce una terra dove l’arte, il buon cibo e una storia secolare hanno reso tutti più ricchi. La luce filtra attraverso le alte arcate del Palazzo dei Priori e quell’orecchino di nonna Rosaria brilla ancora di più. Siamo sedute nella Sala dei Notari, dove le assemblee del popolo decidevano le sorti della città e dove decine di animali, fantastici e non, coi loro stemmi araldici ci stanno a guardare dalle volte: «Trent’anni fa – ricorda la professoressa – mi laureavo in Veterinaria in questo ateneo: i sampietrini che l’università mi ha dato, esame dopo esame, (bocciatura in Microbiologia compresa), messi tutti in fila per bene, uno dopo all’altro, hanno pavimentato la strada che mi ha portato negli Stati Uniti».
Ilaria Capua, 52 anni di classe sbarazzina, è direttrice dell’One health Center of Excellence dell’Università della Florida: «È un centro di eccellenza che vuole vedere la salute come un sistema e intende la salute dell’uomo integrata con quella degli animali, delle piante e dell’ambiente. Oggi abbiamo informazioni inimmaginabili dieci anni fa: il big data environment è alimentato dai dati che tutti noi produciamo che vanno dalla A alla Z, dalle allergie alle zanzare. Grazie a sistemi capaci di produrre algoritmi in grado di analizzare quantitativi immensi di dati, siamo arrivati a questa nuova visione della scienza: si tratta di una consapevolezza e di un approccio moderni. Ad esempio, per trattamenti contro le zanzare rischiamo di uccidere e distruggere il patrimonio apistico, quindi dobbiamo essere più attenti e ora possiamo farlo, anche grazie a collaborazioni internazionali. In questa fase, stiamo creando una intensa collaborazione con l’Isi, l’Istituto interscambio scientifico di Torino, presieduto dal professor Mario Rasetti, e so che faremo belle cose. Sto anche lavorando con Luiss e Bocconi per creare percorsi interdisciplinari che preparino le nuove generazioni alle sfide del futuro».
Belle cose nella ricerca significa restare affascinati dai meccanismi della scienza, dal desiderio di andare in direzione ostinata e contraria per trovare nuove vie ed è ciò che Ilaria Capua ha cercato nel 2016 accettando la sfida americana, reduce dai suoi primi 50 anni pieni di tutto, il rosso e il nero, le stelle e il buio più profondo. Anni intensi, convulsi, burrascosi. Una cittadina del mondo, nata a Roma, sbarca a Perugia: «Mio padre mi voleva avvocato, ma desideravo fare una facoltà scientifica e andar via da casa. Così mi inventai una passione per gli animali perché a Roma Veterinaria non c’era e, con la clausola di salvaguardia di non perdere esami e di prendere tutti 30, potei partire per Perugia, che era scritta nel mio Dna ben prima che io nascessi perché mio nonno Mario, detto anche nonno Banda (si chiamava Mario Bandini, ndr), era stato preside della facoltà di Agraria di Perugia». Il cursus honorum prometteva già bene nel 1989: primina a 5 anni, diploma al liceo internazionale a 17 («Quanta apertura mentale da quella scuola»), laurea a 22 anni. Le stimmate della fuoriclasse sono già in queste tre tappe. Catapultata sulla scena mondiale nel 2006 per aver caratterizzato il ceppo africano H5N1 dell’influenza aviaria e per aver messo a disposizione di tutti – iniziava così l’era dell’open access - quei dati, ha vinto un’infinità di premi che, a metterli in fila, lo spazio di questa intervista sarebbe già finito: fra tutti, nel 2007 il premio Scientific American 50, nel 2008 è stata inclusa fra le “Revolutionary minds” dalla rivista americana Seed, nel 2011 è stata la prima donna a vincere il Penn Vet World Leadership Award, il più prestigioso riconoscimento nel settore della medicina veterinaria. L’Istituto zooprofilattico sperimentale di Legnaro (Padova) è stata la sua casa, il mondo la sua dimensione. La chiamano, va, vede, scopre, duttile, schietta, il passaporto sempre da rifare per i tanti visti che lo riempiono: è il moto perpetuo di un concentrato di energia. Poi, lo straniamento, lo smarrimento, la vita devastata da fake news e giustizia. Il 4 aprile 2014 una copertina dell’Espresso punta il dito contro di lei, quel giorno la sua vita si divide con un colpo d’ascia. Quel giorno come l’ante quem e il post quem della vita. Viene dipinta come una mente criminale senza scrupoli che avrebbe fornito sottobanco ceppi virali alle aziende farmaceutiche per arricchirsi e, attraverso questo traffico, avrebbe anche diffuso virus pericolosissimi nell’ambiente. Poi, arrivano le carte con dodici accuse, fra cui quelle riguardanti la diffusione di epidemie nell’uomo e negli animali, l’associazione per delinquere, il falso ideologico, la concussione e l’abuso d’ufficio (per un totale di forse un centinaio di anni di prigione da assommare all’ergastolo, pena prevista per chi provoca epidemie). La sua carriera è distrutta, la sua reputazione internazionale trasformata in una vergogna nazionale, tanto più che nel 2014 la ricercatrice è già in Parlamento dopo aver aderito a Scelta Civica, il progetto politico di Mario Monti. Avvocati, notti insonni, 17mila pagine di fascicolo, il processo spacchettato fra quattro tribunali e finalmente, nel luglio 2016, la sentenza: «Ilaria Capua è prosciolta perché il fatto non sussiste». Tutto per un’indagine giudiziaria risalente agli anni Duemila (1999-2007). Ma, intanto, la scienziata ha messo fra sé e quegli anni kafkiani, un oceano e una nuova vita all’Università della Florida, che l’ha cercata quando era ancora imputata: «Ho imparato a essere resiliente e, con quello che ho passato, non mi fanno più paura nemmeno gli alligatori ma dovevo cambiare perché la vita è una sola e va spesa al meglio. La mia vocazione è la ricerca, quello so fare e quello continuerò a fare. Queste esperienze ti trasformano e per questo mi sono impegnata a dare voce a chi voce non ce l’ha, in particolare a chi si occupa di scienza, e magari non ha la forza di reagire di fronte ad accuse e calunnie. È una promessa a me stessa perché la sofferenza che non porta a nulla è doppiamente velenosa, e l’ignavia è di chi è senza cuore». Per questo ha scritto Io, trafficante di virus. Una storia di scienza e di amara giustizia (Rizzoli, 2017, con Daniele Mont D’Arpizio), per questo è stato realizzato da Sky Atlantic il docu-film L’anti-scienza. Il caso di Ilaria Capua, di Stefano Pistolini e Massimo Salvucci. Per questo Davide Verrazzani ha ideato una rappresentazione teatrale ispirata alla virologa.
Il harakiri che il nostro Paese ha fatto lasciando scappare Ilaria Capua è la più classica delle follie italiane: «L’Italia mi ha dato moltissimo, io sono uno scienziato (notare il maschile, che è quasi un neutro alla latina, ndr) made in Italy. Grazie al percorso fatto sono riuscita a portare la ricerca italiana di alto livello in tutto il mondo e di questo sono orgogliosa. Poi, conosco i ricercatori di casa nostra, sono ragazzi talentuosi, studiano, si impegnano. Per la loro formazione e per aver respirato cultura, arte, bellezza, sono giovani speciali e li voglio aiutare perché voglio bene all’Italia».
Non quanto l’Italia ne voglia alla ricerca. La professoressa si zittisce, i suoi occhi restano mobili, accesi, luminosi, quasi che quegli occhi anticipassero i suoi pensieri velocissimi. Sospira: «Non glielo devo dire io perché in Italia i talenti non emergono: il merito non è l’elemento che orienta le scelte perché contano altre caratteristiche, specialmente se sei donna. Se, al vertice della piramide, c’è il migliore nel settore, spesso ci è arrivato per caso o per coincidenza perché in Italia la bravura non è premiata secondo un metodo oggettivo e validato, senza essere viziato da pregiudizi o influenze. Mica come negli Usa dove, che tu sia maschio o femmina, gay, bianco o nero o giallo, è come essere coperti da un burqa o avvolti da un mantello dell’invisibilità: al centro della discussione rimangono le idee e i risultati».
Quelli che, però, sono messi in discussione quasi per sport da tempo: «L’anti-scienza – spiega Capua – è un virus diffuso ovunque. In Italia (ma non solo) i no-vax, negli Usa i terrapiattisti, che sostengono ancora nel 2019 che la terra sia piatta. Non bisogna rassegnarsi ed essere fatalisti. Noi ricercatori dobbiamo avere moti d’orgoglio ed essere capaci di spiegare che la nostra ricerca lavora per il bene e la salute di tutti».
È faticosa questa battaglia, è «una fatica indefessa, come quella che spesso dimostrano le donne per raggiungere certe posizioni ma, cocchine mie – è la sua affettuosa e perugina pacca sulle spalle -, state tranquille, che la forza, quando serve, si tira fuori. E soprattutto, non abbiate paura di mostrare il vostro talento e le vostre capacità». Come quelle, immense, che hanno portato Ilaria Capua nel mondo.
Quando, nella Sala dei Notari, la cerimonia stava per terminare, la virologa, vestita della sua nuova toga dottorale e del suo tocco, ha cercato con gli occhi il fratello Michelangelo fra il pubblico e gli ha fatto capire che aspettava lì, per la foto di rito, la nipote. Giorgia, sei anni, quasi intimorita, si è alzata dal suo posto con il suo panda di peluche e si è avvicinata alla zia Ilaria, tra i prof e il rettore con l’ermellino bianco. Il futuro è delle donne.