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 2019  marzo 17 Domenica calendario

Il problema delle aste immobiliari

In Basilicata per vendere all’asta un immobile pignorato servono in media 1.837 giorni. Cioè più di cinque anni. Meglio rispetto ai 2.822 che erano necessari nel 2017, ma ancora troppi. In Sardegna ne servono 1.735, in Sicilia 1.721, in Molise 1.700. In tutti questi casi i tempi sono calati nel 2018 rispetto al 2017, ma non abbastanza. Va meglio al Nord, ma solo la Valle d’Aosta con circa 2 anni si allinea alla media europea. Tutte le altre Regioni sono ampiamente sopra. Sarebbe superficiale considerare questi numeri – calcolati per Il Sole 24 Ore da Paolo Sgritta, a.d di Sistemia – come un problema che riguarda solo le banche che devono recuperare i crediti in sofferenza o venderli al miglior prezzo possibile. La lentezza dei Tribunali e delle aste immobiliari è infatti un boomerang per tutti. Anche per le famiglie che hanno il mutuo in sofferenza: non tutti sanno che se l’immobile viene venduto in asta a un prezzo più basso del mutuo ancora da pagare, la famiglia resta debitrice della banca per la cifra residua. Insomma: perde la casa, ma resta ancora con le società di recupero crediti alle calcagna. Per questo la lentezza tutta italiana delle aste immobiliari è una sconfitta per tutti. Tranne che per gli ultimi che andrebbero favoriti: gli speculatori d’asta.
Eppure gli ultimi interventi normativi e delle Autorità, con il nobile e sacrosanto obiettivo di aiutare le famiglie debitrici, rischiano di creare alcuni effetti boomerang. Due sono – secondo gli addetti ai lavori – le novità che rischiano di diventare controproducenti. La prima riguarda le Reoco, cioè le società delle stesse banche che hanno il compito di evitare la svendita degli immobili partecipando alle aste quando i prezzi scendono troppo: una recente pronuncia dell’Agenzia delle Entrate ha stabilito che non godono di alcun beneficio fiscale. La seconda novità – più delicata- è invece arrivata con la conversione del Decreto Semplificazioni, che ha riscritto l’articolo 560 del Codice di procedura civile: con l’obiettivo nobilissimo di mantenere le famiglie insolventi nel la propria casa più a lungo possibile, questa riforma nella pratica rischia di svalutare ulteriormente i prezzi degli immobili penalizzando alla fine le stesse famiglie.
Casa occupata 
Il tema più delicato, per i risvolti sociali, è proprio la riforma dell’articolo 560. La nuova norma prevede che nelle espropriazioni immobiliari iniziate dopo il 13 febbraio 2019, le famiglie hanno il diritto di restare nella propria abitazione fino a che non arriverà il decreto di trasferimento. Per dirla semplice: le case d’ora in avanti verranno vendute in asta con la famiglia debitrice ancora dentro. Vista così è una riforma più che condivisibile. Perché sta dalla parte delle famiglie in difficoltà, permettendo loro di restare in casa il più possibile. Ma gli addetti ai lavori segnalano un potenziale effetto indesiderato: dato che le case (solo quelle le cui espropriazioni sono iniziate dopo il 13 febbraio) d’ora in avanti verranno vendute in asta ancora occupate, il loro appeal scende molto per chi compra. Questo da un lato fa guadagnare alle famiglie circa un anno di permanenza nella propria casa (cosa positiva), ma dall’altro rischia di far scendere ulteriormente il prezzo di vendita.
Gli addetti ai lavori presenti a un recente convegno al Sole 24 Ore hanno stimato a spanne il possibile impatto: i prezzi delle case (per ora poche) oggetto di questa riforma potrebbero venire penalizzati di un ulteriore 20%. «Se si vende un immobile occupato oppure libero il prezzo è ovvio che cambi – osserva Riccardo Serrini, Ceo del gruppo Prelios -. Il divario sarà inferiore nelle grandi città che nei piccoli centri, ma una svalutazione intorno al 20% è prevedibile». «La norma affronta un tema importante perché tratta un aspetto sociale – osserva Fabio Balbinot, Chief Servicing Officer di doBank, principale società di gestione di Npl in Italia -. Poiché riguarda le nuove sofferenze ci aspettiamo un impatto limitato». Ma un’alternativa ci sarebbe. Per esempio – osservano sia Balbinot sia Serrini – si potrebbe creare un fondo sociale di solidarietà, magari cofinanziato da Stato, banche e operatori del settore, che aiuti le famiglie debitrici senza penalizzare la vendita degli immobili in asta. 
Reoco e il fisco 
Altra questione spinosa, anche in chiave smaltimento Npl, riguarda le Reoco (Real estate owned company), cioè quei veicoli che acquistano, gestiscono e valorizzano nell’interesse della cartolarizzazione gli immobili registrati a garanzia dei crediti acquistati dal veicolo. Di recente l’Agenzia delle entrate ha infatti chiarito, non senza sorpresa, che pur svolgendo un’attività commerciale a servizio della cartolarizzazione queste società saranno assoggettate ordinariamente a Ires e Irap, dato che non costituiscono un patrimonio separato.
Nella pratica – e a differenza di quanto avviene per le stesse società di cartolarizzazione, che sono soggette a un regime di neutralità fiscale – ogniqualvolta vendono un immobile sul mercato le Reoco saranno chiamate a versare imposte, e neanche di importo limitato. «Se l’interpretazione fosse portata all’estremo sarebbero soggette a un’aliquota che può partire dal 27,9% e, secondo alcune interpretazioni, arrivare anche al 32-33%», sostiene Carlo Galli, Partner e Responsabile del Dipartimento Tax di Clifford Chance, che non esita a mettere il dito nella piaga: «Per chi acquista un credito – aggiunge – un eventuale prelievo fiscale sul realizzo dei beni a garanzia rischia di tradursi in un recupero sul credito inferiore alle attese».
Evidente come il nodo Reoco possa a sua volta influenzare lo stesso processo di valutazione dei pacchetti di Npl in cerca di acquirente e rappresentare in definitiva un ulteriore granello di sabbia nei meccanismi di un mercato che già di per sé fatica a funzionare. «Anche se una corretta impostazione contabile potrebbe comunque portare alla neutralità fiscale che l’Agenzia sembra negare, il sentiment di mercato patisce l’incertezza che deriva dall’ipotizzata impostazione fiscale e si rischia un ripensamento del modello di pricing sulle nuove operazioni», conferma Galli, configurando quindi una situazione dannosa sulla quale occorrerebbe intervenire con una soluzione di sistema.