La Stampa, 17 marzo 2019
Così parlano i muri di Roma
Stavo cercando la mia vecchia palestra nel rione Monti di Roma quando mi sono accorto di averla superata due volte senza riconoscerla. Non ha insegne o targhe sul portone. Si diceva: “Sta di fianco a Italia 90”. Sul muro era infatti scritto a spray scuro: “Boicotta i Mondiali. No a Italia 90”. Ci andavo nel 2000. Nel 2008 organizzai un flash mob in strada per festeggiare la maggiore età della scritta. L’hanno fatta fuori nel fiore degli anni, ora ci perdiamo per i vicoli e non esprimiamo opinioni sull’olimpiade invernale del 2026.
Il Comune di Roma ha deciso di ripulire le facciate, per ora riuscendo a eliminare pezzi di storia più che sconcezze. Qualcuno vergò: “Diffida dai libri, leggi sui muri”. Il novanta per cento di quel che vi appare è una porcheria, il restante è l’erede diretto delle pasquinate, l’espressione di una guitteria che un tempo richiedeva sforzi (uscire di casa con la bomboletta e il favor delle tenebre) e oggi si esercita in poltrona mettendo un post nella propria bacheca elettronica. C’è la stessa differenza che corre tra scrivere una lettera (dopo essersi procurati carta e bollo e averla impostata) e spedire una e mail. Non c’è calligrafia. Soprattutto, non c’è anonimato, che qui non è necessariamente sinonimo di vigliaccheria. Piuttosto, di rinuncia all’appropriazione di una creazione intellettuale. Non sia mai: ora si è beffardi con tanto di firma e seguaci. Tradotto: a futuro pagamento.
Così ho preso il motorino e ho attraversato Roma “leggendo sui muri” quel che ancora hanno da dirmi. Sbucato sulla riva del Tevere, sotto il gazometro, mi attende un avvertimento cupo, annegato tra spire colorate, reso poco credibile dall’incipit: “L’amici tua lo sanno che sei un infame collaboratore di giustizia”. E questa è la cifra della città: il romanzo criminale s’intinge nel sugo del ridicolo, nella declinazione della capitale la mafia sprofonda nella terra di mezzo e il losco ordito finanziario di Ricucci viene risucchiato, da una battuta, nel fondoschiena degli altri. Se c’è un’atrocità ulteriore è nel delegare al frizzo e al lazzo ogni cosa, perfino le offese che affiorano dal pozzo più scuro della storia, quello antisemita. Non c’è tesi o antitesi che non possa essere risolta in una sintesi beffarda.
La teoria dell’uno per cento, per cui la ricchezza mondiale è dissolta nella più massiccia diseguaglianza che altrove aveva prodotto l’occupazione di un rettangolo ombreggiato nei pressi di Wall street qui si risolve giocando con le parole in una riga: “E’ tutto loro quel che luccica”.
L’epicureismo del carpe diem, il procedere un giorno alla volta o l’entusiasmo di vivere come non esistesse un domani sussunti in diciotto lettere e un punto esclamativo: “Oggi abbiamo vissuto!”.
Tutta la libertà del mondo, invocata e infine strappata viene dissipata, con pretesa di nobiltà, in esibizioni di cialtroneria. Dica, dica quel che vuole, anzi, visto che ha gli strumenti, lo scriva, qui, sulle antiche pietre: “+ pere – mele”, oppure “Buon anno un cazzo”.
Esci pure di casa nottetempo, per affermare il nulla, in un’afasia che silenzia passioni e proteste, lasciando sopravvivere come unico modulo di interpretazione quello del tifo calcistico, applicato alla politica, alla storia, al sentimento.
Lo scrive e descrive Edoardo Albinati in “Cuori fanatici”: «Il successo, la bellezza, i soldi, la religione, l’amore, il coito, il suicidio, le potenze, i drammi, i desideri di ogni tipo sono degni al massimo di ricevere un ironico ossequio, se non sbeffeggiati nel bel mezzo dell’inchino».
Perciò: “Il mio core brucia pe te... come n’autobus dell’A.T.A.C.”, “Fare all’amore con te è stato come lanciare un salame in un corridoio”, “Beato te” (sotto la targa di Campo de’ Fiori), “Dio è morto” (sul lato di una chiesa nell’imminenza di un funerale) fino a “C’è vita dopo Marzullo?” e, nel quartiere dove era ambientata la fiction che voleva renderlo ancor più popolare, “Cesaroni fuori dai coglioni”.
E’ una progressiva dissoluzione del senso: dall’affermazione che cerca proseliti alla battuta fine a se stessa. Destrutturare è un parolone abusato per dire semplificare. Dalla calligrafia allo scarabocchio è infantilismo di ritorno. Ancora Albinati: «La città è tutta una cicatrice... non può reagire alle punture dell’attualità se non con una smorfia, più d’impotenza che di vero dolore, un ghigno». E tutto un ghigno sono i muri di San Lorenzo, il quartiere più martoriato, dalla guerra all’altro ieri. E’ un disperato tentativo di riscattarli quello di programmare proprio lì e proprio adesso Banksy confidential, con tre opere del più noto artista della street art esposte fino alla naturale consunzione, processo che qui appare velocizzato rispetto a ogni altro luogo.
Quanto ci vorrà perché accada? Per dare un’occhiata posteggio all’ombra delle Mura, in un punto la cui toponomastica è affidata a un’altra scritta: “W il nuovo PCI” con tanto di falce e martello. A quale era geologico-politica risale? Coeva del Garibaldi cancellato alla Garbatella oppure frutto di evocazioni disperate successive alla Bolognina o al protorenzismo? O era lo sfondo per una carrellata cinematografica, un’illusione per definizione?
Per chiudere con l’inizio di tutto vado a cercare una scritta nei vicoli tra i Fori Imperiali e il Colosseo che resisteva da anni, realizzata in due tempi. Nel primo una mano armata di spray si era accostata a una feritoia nel muro e ci aveva disegnato sommariamente due gambe femminili, aperte. Nel secondo un’altra vi aveva aggiunto una didascalia museale “L’origine del mondo, Gustave Courbet, Francia, 1866”. C’è stato un intervento, non so se da parte dell’Ufficio decoro o dei residenti, una cancellazione parziale. Curiosamente, hanno eliminato la didascalia, lasciando il resto. E’ il riferimento che attenua o elimina la volgarità, è la conoscenza la password che ci permette di trasformare in parodia la sventura. Occorrono un’arte nello scrivere e una nel cancellare. Il vizio è capitale se mancano entrambe.