Robinson, 17 marzo 2019
I Super luoghi di Marc Augé
L’altro, gli altri, questo strano modo di chiamare noi stessi. Stavolta il professor Augé ci punta addosso la sua lente d’ingrandimento (forse lui è un entomologo, non solo un etnologo, un filosofo, uno scrittore, un inventore di parole, forse noi siamo dei bizzarri lepidotteri col cellulare in mano), ci guarda da vicinissimo e ci dice che possiamo salvarci la vita. Alienati da troppa modernità, sballottati da troppa informazione confusa per comunicazione, centrifugati in questa inutile rapidità di movimento per raggiungere velocissimamente nessun posto, la vita possiamo salvarla. Ma solo insieme agli altri, riportandola a quello che era: una trama fitta, un tessuto di relazioni.
Marc Augé si è tuffato nei suoi “passati differenti”, epoche dell’esperienza in cui ha scritto, elaborato e riscritto, per distillare in purezza il suo libro-mondo: Chi è dunque l’altro? (Raffaello Cortina), dove quel “dunque” è come un divano per distendersi e riflettere. Dopo lo smarrimento di aeroporti e ipermercati, ma anche di monitor, cavi e frequenze (il limbo è ormai smisurato perché virtuale, digitale), il celebre scopritore dei non luoghi indaga stavolta i super luoghi della nostra resistenza umana.
Per farlo, il professor Augé e i suoi curiosissimi 84 anni si sono spostati nientemeno che sulla linea di mezzeria dell’autostrada, frontiera tra io e gli altri, noi e loro, ma anche segno di orientamento: perché la linea previene e organizza la presenza del mondo. Una riga bianca ci ricorda che non siamo soli e che la vita sociale è una questione di compromessi, simboleggiando obblighi e regole e indicando nel contempo la direzione. Ancora più eloquenti sono le righe stradali delle piccole strade e i cartelli chiacchieroni, con quel loro modo di ricordarci che nell’universo esistono pure i trattori e che si può ripensare un prato, una collina, un paesaggio, addirittura fermandoci. “Guizziamo nel mondo globalizzato come pesci rossi nella loro boccia: forse è venuto il tempo di interessarci alla boccia”.
All’interno delle tre sezioni che compongono il saggio – l’alterità, la vita come racconto, le città — la componente che diremmo stradale è un fulcro. I lettori sanno che Augé ha momenti di estrema forza narrativa, per lui un sorpasso in automobile può trasformarsi nel profilo impassibile di chi ci sta superando, l’istante fulmineo e immobile dei nostri sguardi paralleli, poi rimarrà una piccola freccia arancione: tutto quello che resta mentre scopriamo di non essere soli.
Questo è dunque un libro sulle relazioni. E quando, sempre viaggiando, capitiamo nell’immancabile rotonda e dobbiamo rispettare un’inaudita precedenza a sinistra, precipitiamo in una specie di rivoluzione culturale: il carrefour alla conquista del mondo, la rivincita del locale sul globale. Un altro super luogo. Perché si ha un bel parlare di mondializzazione e globalizzazione, ma per sopravvivere abbiamo bisogno di Thiers, “capitale della coltelleria” o di Janzé, “culla del pollo ruspante”. Gli altri, ancora: sono il vero territorio, non importa se presidiato dai vicini di pianerottolo o da nostro cugino che prova a salvarsi la vita trafficando al banco degli attrezzi in cantina, è in quel super luogo che aggiusta le cose riparando un po’ anche sé stesso. Nella galassia della città fortezza, in questa moltiplicazione di solitudini che l’illusione digitale offre come un vassoio di pasticcini, Augé ci invita a coltivare il giardino, come Voltaire. Non per fuggire, né per dimenticare “l’irriducibile alterità degli altri”, ma per recuperare i “luoghi luoghi": l’angolo del comodino dove abbiamo appoggiato un romanzo e gli occhiali, la macchinetta del caffè con annesse cialde, il cruscotto dell’automobile. Cioè i rifugi, quelli che da bambini chiamavamo capanne in un sogno di libertà che era anche solitudine, perché davvero gli altri siamo noi.
Nella sua essenza, la capanna racchiude l’impagabile momento: infilarsi il costume da bagno dentro una cabina in spiaggia, l’interno e l’esterno insieme, il vicino e il lontano, le voci del mondo in vacanza e noi lì nell’ombra, in ascolto. È tutta una questione di dettagli. Invecchiando si accudiscono meglio, sembra dirci il professore mentre ci racconta un dipinto, Olympia, di Edouard Manet: la cortigiana nuda e sporca, distesa con uno sguardo di superiore distacco, senza nulla addosso se non le pantofole e quel nastro di velluto attorno al collo: il particolare che rende la donna ancora più nuda, catturando il nostro sguardo, e che insieme definisce l’epoca, dunque la storia, dunque il mondo. È questo, per Augé, il compito dell’artista, essere presente al proprio tempo creando una catena che lo precisi. Eppure non scatta mai la trappola del passato, questo è anzi un libro pieno di futuro e speranza. Non abbiamo perso nulla ma abbiamo tutto da immaginare, ci ripete il professore. La storia non fa che uscire dalla preistoria, ed è appena cominciata.