Robinson, 17 marzo 2019
La più grande fiera del libro antico
C’è uno spazio della nostra vita dove la tirannide digitale sembra essersi fermata o addirittura retrocede. Questo spazio è occupato dal libro. Le profezie sulla sua estinzione non si avverano. Non mi riferisco solo alle vendite di ebook che hanno smesso di crescere ( pur sempre di libri si tratta, anche se ci privano di un oggetto del piacere fisico). Nell’era in cui l’umanità sembra avviata verso una metamorfosi, da Homo Sapiens a una specie di zombie con lo sguardo incollato agli smartphone, la “lettura lunga” rimane un’abitudine pervicace. Paradossalmente, lo smartphone sta allontanando una generazione giovane dalla tv più che dal libro? Per capire il fascino di quest’oggetto mi sono immerso in un luogo dove il suo amore viene elevato al rango di un culto: la più importante fiera mondiale del libro antico. Un osservatorio speciale, per studiare il nostro rapporto con quella cosa di carta.
Poiché di fiera si tratta, cioè mercato, non è banale partire dai prezzi: sono lo specchio di una gerarchia di valori piena di sorprese. Un libro di Mao Zedong del 1942, Per costruire un nuovo mondo di pace e democrazia, con dedica autografa dell’autore a un diplomatico francese, è quotato 1,5 milioni di dollari. Venditore: Antiquariat Inlibris di Vienna. Una prima edizione del Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, anno 1925, vale 278mila dollari nel catalogo di Bauman Rare Books. Mentre un Pontificale del 1460, manoscritto miniato della bottega di Giorgio D’Alemagna e Taddeo Crivelli, si può acquistare per “soli” 75mila dollari. Quest’ultimo è un’opera unica, usata da un vescovo per celebrare la messa. Con tanto di decorazione policroma di un’artista formato alla corte estense di Ferrara. Un gioiello del Rinascimento, vale un quarto di un romanzo del Novecento, e un ventesimo della firma di Mao?
Sono alcuni degli enigmi in cui mi sono imbattuto visitando la 59esima fiera del libro antico a Manhattan. La New York International Antiquarian Book Fair ( Nyiabf) si è tenuta come ogni anno a marzo all’Armory, imponente edificio ottocentesco di origini militari, con arredamenti in stile Tiffany. È un luogo speciale, The Armory: ha ospitato performance teatrali di Marina Abramovi? e Bob Wilson, William Kentridge, Ariane Mnouchkine, a giorni aprirà la Lehman Trilogy di Stefano Massini. Ma lo spazio enorme si adatta a grandi esposizioni, concerti. O fiere come questa delle librerie d’antiquariato venute dal mondo intero.
I prezzi non sono tutti così alti, e il vasto pubblico che affluisce non è fatto solo di facoltosi collezionisti, tra cui un tempo si aggiravano Umberto Eco e Guido Rossi. C’è un altro tipo di visitatori, che spazia dagli studiosi accademici agli appassionati autodidatti. Per la ricchezza delle collezioni private che vengono esposte, la fiera è anche un museo, un luogo di scoperta e di apprendimento. Mimetizzati tra la folla variegata ci sono pure i rappresentanti delle grandi università americane, che ogni anno stanziano fondi per arricchire le proprie biblioteche. Dietro un professore universitario relativamente squattrinato, può nascondersi la potenza finanziaria di Harvard o Yale, le cui “campagne acquisti” non finiscono mai.
Sono ben rappresentati gli italiani: 11 espositori nell’edizione 2019. Quest’anno ho visto Bado e Mart di Padova, Bibliopathos di Verona, Alessandro Borgato di Padova, la Borromini di Roma, Il Cartiglio e la Pregliasco di Torino, la Mediolanum e Il Polifilo di Milano, Giuseppe Solmi da Ozzano Emilia.
È uno di loro che mi serve da guida in questo universo affascinante: Vincenzo Ferro della Bibliopathos. La trasferta è costosa. Uno stand, spazio espositivo abbastanza ridotto, può richiedere 17mila dollari di affitto per quattro giorni. Lo si può ridurre mettendosi in condominio con un collega- amico. Il costo maggiore, però, è l’assicurazione sui pezzi pregiati che devono sorvolare l’Atlantico. Eppure «è un investimento che vale la pena affrontare ogni anno, e infatti questo gruppo d’italiani si ritrova puntualmente qui», spiega Ferro. La ragione: il pubblico che frequenta New York non delude mai. Addirittura il massimo degli affari avviene nelle pre-vendite, i collezionisti si prenotano gli oggetti del desiderio prima ancora che la fiera apra ai visitatori. Del resto i cataloghi dei librai sono pronti con largo anticipo: gli italiani devono sottoporli molti mesi prima alle soprintendenze, per avere il nulla osta all’export.
Il successo della fiera nasconde un’altra sorpresa: l’antiquariato del libro ha retto meglio di quello dei mobili o perfino dell’arte d’epoca. Si sa che per gli antiquari tout court sono tempi duri, e la causa è nota: i nuovi ricchi del nostro tempo sono trentenni della Silicon Valley che abitano in case dallo stile minimalista zen; oppure oligarchi cinesi con superattico stellare a Manhattan; categorie più attratte dall’arte contemporanea. Il libro antico però ha un pubblico a parte, una nicchia protetta.
Che gerarchia di valori traspare dal listino prezzi? Gli italiani esibiscono qui alcuni dei pezzi più antichi e pregiati, ma non battono i record economici. «Gli americani – dice Ferro – adorano la propria storia nazionale, un libro che risale alla Guerra di secessione può raggiungere prezzi stratosferici». Vi si aggiunge il fenomeno del modernariato, osservando le quotazioni degli originali di Hemingway, Salinger, Harper Lee. Conclusione: anche per una élite colta l’idea di nazione conta; e la nostalgia del “secolo americano” può essere struggente.
Tornando a quel Pontificale del 1460, la data impone un interrogativo: Gutenberg aveva già inventato la stampa dieci anni prima. «Ma per molto tempo ancora – spiega Ferro – i veri intenditori continuarono a preferire i manoscritti miniati, oggetti di una bellezza superiore». Gutenberg, tuttavia, reagì assoldando un certo Lucas Cranach per decorare le sue Bibbie; e portò il sapere alle masse. Nei paesi della sua area culturale – la Riforma protestante – tuttora gli indici di lettura sono il doppio o il triplo dei nostri.