La Lettura, 17 marzo 2019
I danni dell’empatia
La simpatia è un gran bel sentire e l’empatia – la capacità di entrare in comunione con un altro o, come si usa dire comunemente, di mettersi nei panni di un’altra persona – è una sensibilità umana, forse troppo umana, direbbe Friedrich Nietzsche. Oggi un po’ tutti aspirano non solo a essere simpatici, ma soprattutto a essere empatici. I politici, in particolare, puntano molto su questo processo di identificazione in cui uno solo dovrebbe esprimere il comune sentire di molti, magari di tutti, e molti, magari tutti, si dovrebbero identificare in uno solo, fino a fare di una moltitudine o di un popolo un solo uomo, come direbbe, in questo caso, Hannah Arendt. In uno dei suoi seguitissimi discorsi, l’ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, disse che il più «grande deficit» della società contemporanea è proprio «un deficit di empatia». E aggiungeva a mo’ di programma politico e sociale: «Abbiamo un grande bisogno di persone che siano in grado di mettersi nei panni di qualcun altro e vedere il mondo attraverso i suoi occhi». Insomma, l’empatia come guida morale del mondo. Possibile?
Per ascoltare politici che invitano a «mettersi nei panni degli altri» non c’è bisogno di uscire dai confini nazionali. A casa nostra Nicola Zingaretti, pochi giorni prima del voto delle primarie del Pd, ha detto: «Dobbiamo recuperare l’empatia con il nostro elettorato». D’altra parte, il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, nel pieno di uno scontro con Bruxelles per i conti pubblici, non ebbe timore, con un tweet, a identificarsi con 60 milioni di italiani per i quali chiedeva rispetto. L’empatia (che si tratti di «buoni sentimenti» o della «voce del popolo» fa poca differenza) mira a sostituire il cervello con il cuore o, se si vuole, a privilegiare le emozioni sulla ragione o, almeno – per citare Norberto Bobbio – sulla ragionevolezza. Ma siamo sicuri che sia una buona idea? Soprattutto, con l’empatia elevata a sistema di governo non saranno proprio i sentimenti e il senso comune a cadere in una forma di contrappasso? Un buon uso della testa non farà bene anche al cuore? A lungo andare, la «democrazia delle emozioni» non mette in serio pericolo proprio la stessa vita democratica? È esattamente questo il senso del libro dello psicologo di Yale, Paul Bloom, che fin dal titolo non lascia spazio alle ipotesi: Contro l’empatia. Una difesa della razionalità (Liberilibri).
Se si deve giudicare un’opera d’arte o un testo letterario, l’empatia ha un valore positivo. Ma se il giudizio deve essere esercitato per prendere decisioni che riguardano casi politici, sociali ed economici e che, in definitiva, hanno a che fare con la nostra «società complessa», allora, l’empatia non solo è inutile, ma anche dannosa. Paul Bloom usa un paragone calzante: le bibite gassate. Sono dolci, allettanti, deliziose, ma anche nocive. Michele Silenzi – traduttore e curatore del libro di Bloom – osserva che l’empatia genera piacere con il coinvolgimento nella vita altrui; oppure benessere perché ci fa sentire buoni e, tuttavia, non è per nulla una valida guida morale. Ci spinge a pronunciare giudizi avventati e a fare scelte politiche ingiuste.
Si prenda il caso di Rebecca Smith. La bambina si ammala gravemente dopo la somministrazione di un vaccino difettoso. La nostra umanità, che è un ponte che ci consente di «comunicare» con gli altri e di «sentire» il loro dolore, ci avvicina alla bambina ed i suoi cari fino al punto di voler fare qualcosa. Che cosa? C’è chi arriva a sostenere – come, per esempio, si fa anche in Italia – di non usare più i vaccini perché in quel singolo caso la bambina si è ammalata. Eppure, se si ferma il programma di vaccinazione moriranno altri bambini, dei quali magari non si saprà nulla o che andranno a formare una fredda statistica. Il caso di Rebecca suscita empatia, la statistica non commuove nessuno. Eppure, non è questo un buon motivo per decidere in base all’empatia. Anzi, è vero proprio il contrario: non usare i vaccini in nome dell’empatia uccide, mentre usare (anche) le statistiche e proseguire le vaccinazioni salva vite umane.
Paul Bloom cita anche un altro illuminante esempio: il destino della città di Coventry durante la Seconda guerra mondiale. Gli inglesi avevano scoperto come decodificare il codice Enigma dei nazisti – si veda al riguardo anche il film del 2014 The Imitation Game — e quindi avevano saputo del terribile attacco che i nemici stavano per sferrare sulla città. Che cosa avrebbe dovuto fare il governo di Churchill? Salvare la città sulla base dell’empatia, ma far capire così ai tedeschi che era a conoscenza delle loro mosse, oppure sacrificare la città, conservando il vantaggio militare per vincere la guerra e salvare così anche un numero maggiore di vite? I britannici scelsero la seconda terribile strada. Anche per questo siamo ancora qua.
L’emotività empatica non è affatto il modo migliore per governare sia gli altri sia noi stessi. Eppure, proprio le emozioni, i buoni sentimenti, il cuore – che noi italiani abbiamo sempre «in mano» – sono stati posti al centro del «villaggio occidentale». Perché? Perché la ragione, essendo fallibile, non è onnipotente come il buon Dio di cui avvertiamo nostalgia e così «l’imperfezione di una buona ragionevolezza non ci sembra abbastanza». La ragione umana può qualcosa – come nel caso di Coventry o della piccola Rebecca – ma non può tutto, tuttavia le emozioni e l’empatia non vogliono qualcosa e chiedono tutto, perché questo processo di autoidentificazione con i dolori, ma anche le gioie altrui è rassicurante e autoconfermativo, come se l’uomo fosse Dio. Ma l’uomo non è Dio e illudersi di esserlo peggiora la situazione. Infatti, l’empatia, che sostituisce la compassione razionale, non fa altro che annullare la responsabilità e infiacchire l’azione. «Mettersi nei panni degli altri» significa in realtà proprio il contrario: è il tentativo emotivo di difendersi dal dolore affinché ciò che è capitato agli altri non accada a noi. Ma così va perduta proprio la capacità di aiutare gli altri, giacché prestare aiuto, soccorrere, salvare implica la sopportazione reale e non empatica del dolore. Il processo di identificazione è illusorio proprio come è illusorio credere di essere Dio: «Nessuno di noi è un bambino affamato dell’Africa profonda, un orfano che vive mendicando per le strade di Phnom Penh o una famiglia siriana. Quello che possiamo e dobbiamo fare, invece, è comprendere razionalmente e provare a trovare soluzioni utili e reali».