Corriere della Sera, 17 marzo 2019
Tutto sul Lussemburgo
È il ruggito del topo. «He he, sì, potrebbe ricordare il film con Peter Sellers. È vero che il Lussemburgo ha una voce e un potere maggiori di quello che fan pensare le sue dimensioni. Ma ci sono buone ragioni». Dario Scannapieco è vicepresidente della Banca europea degli investimenti (Bei), uno dei bracci più importanti della Ue, il più ricco: nel Granducato ha vissuto sette anni. «Non è solo la posizione geografica a influire – spiega – e nemmeno il fatto che sia uno dei sei Paesi fondatori. È che qui l’europeismo sgorga dalla storia: questa terra è stretta tra la Germania e la Francia e nella prima metà del secolo scorso ci passavano gli eserciti delle due Nazioni in guerra tra loro. Oggi, vedere nell’Unione europea la pace e la tranquillità, la fine della rivalità tra Stati, qui è naturale, è una convinzione radicata, indiscussa. E che dà peso nell’Unione».
Già, ignorare il Lussemburgo perché è piccolo – 600 mila abitanti – è sciocco. La sua influenza sugli affari dell’Europa è sproporzionatamente grande. Dei 13 presidenti che la Commissione ha avuto, tre sono lussemburghesi: Gaston Thorn nella prima metà degli Anni Ottanta, Jacques Santer nella seconda metà dei Novanta e Jean-Claude Juncker attualmente. Colui che viene spesso considerato il padre dell’euro, Pierre Werner, era premier e ministro delle Finanze del Granducato quando, nel 1970, presentò il primo piano per la creazione della moneta unica. E a Città del Lussemburgo hanno i loro quartier generali, oltre alla Bei, la Corte di Giustizia europea, la Corte dei Conti della Ue, l’ufficio statistico Eurostat, il Meccanismo di Stabilità dell’Eurozona (Esm); in più, anche se poco usata, c’è la terza sede del Parlamento europeo (al fianco di quelle di Bruxelles e Strasburgo).
Un po’ soffocante forse, monoculturale: trovare anche solo un moderato euroscettico è impossibile, non solo tra i funzionari e gli impiegati che la mattina e il tardo pomeriggio entrano ed escono in drappelli delle istituzioni della Ue ma anche tra la popolazione «laica», non stipendiata dall’Unione. È che, come ricorda Scannapieco, le guerre del Novecento hanno temprato l’europeismo del Lussemburgo. La Linea Sigfrido, costruita dai tedeschi durante la prima guerra mondiale, passava a pochi chilometri. Nel dicembre 1944, all’inizio della Battaglia delle Ardenne, il Granducato era spaccato in due dalla linea del fronte: nel Cimitero americano, non lontano dall’aeroporto della capitale, più di cinquemila croci e stelle di David, bianche sul verde del prato, ricordano i caduti americani, quasi protette, alle spalle, dalla tomba del generale George Patton, che morì dopo uno stupido incidente stradale alla fine del 1945 e volle essere sepolto nel cimitero dei suoi soldati.
Il risultato è unico in tutta l’Unione europea: il Lussemburgo è probabilmente il solo Paese che, se domani si sciogliessero i parlamenti nazionali e si creassero gli Stati Uniti d’Europa, potrebbe farlo senza opposizioni troppo forti.
Tutto ciò, nel Paese, inizia sin da piccoli. «Oggi la Ue affronta molti problemi, non tutti abbiamo gli stessi obiettivi», ammette Martin Wedel, il direttore della Schola Europaea, l’istituzione dell’Unione destinata per lo più ai figli (dai sei ai 19 anni) dei suoi funzionari con sedi ovunque ci sia una presenza della Ue (quella del Lussemburgo è la più vecchia, fondata nel 1953). «L’importante – aggiunge il direttore – è però la formazione dei ragazzi. Qui, abbiamo studenti di 30 nazionalità ma nessuno di loro ha un approccio nazionale, tutti si sentono europei. Per il Lussemburgo questo è un approccio fondamentale sia per ragioni storiche sia perché abbiamo la necessità che arrivi manodopera da altri Paesi».
Dall’estero gli europei sono arrivati e continuano ad arrivare. «Una maggioranza degli abitanti di Città del Lussemburgo non è lussemburghese», dice Marco Alberici, il direttore del liceo della Schola Europaea, italiano egli stesso. Infatti, alle elezioni nazionali dello scorso ottobre solo il 48% degli abitanti è andato alle urne nonostante il voto sia obbligatorio per chi ha meno di 75 anni: la percentuale bassa è dovuta al fatto che agli altri, ai non nazionali, non è consentito votare. Si calcola che in un Paese così piccolo siano residenti almeno 140 diverse nazionalità. In buona parte, sono qui per l’Unione europea, della quale il Lussemburgo è il secondo centro per densità istituzionale: la Ue è naturalmente un magnete che offre opportunità. E privilegi. «Certo che la scuola europea è un privilegio per i funzionari della Ue e i loro figli – concorda il direttore Wedel – Ma i ragazzi dei 27 Paesi che abitano qui, tutti con background diversi, devono pure andare a scuola. Inoltre non siamo chiusi ad altri studenti. Il vero privilegio è che così possiamo avere un approccio multinazionale». Già, apertura internazionale ed Europa sono i pilastri portanti del Paese. Per tutti, forse ancora di più, e con coscienza più definita, per i giovani.
Egan Paquay, 19 anni, di origine belga, studente del liceo Athénée de Luxembourg, il più prestigioso della città, dice che per lui «l’Europa è come un’insalata: un mix di molte cose, di culture e di genti che vogliono vivere insieme e in armonia». Il problema, aggiunge, «sorge quando la gente non capisce cos’è quest’insalata: servono gli ingredienti e il mix giusto e serve mostrare alla gente cosa ci si mette e cosa apporta l’Europa». Rocío Tilves, quasi vent’anni, spagnola, anche lei studente in Lussemburgo, parla cinque lingue, ha seguito 75 serie tv, gioca a calcio. «Per me l’Europa è diversità e uguaglianza – dice – Essere in Lussemburgo è una fortuna, la fortuna di imparare da culture diverse». Quel che in altri Paesi suonerebbe come una generica retorica europeista, qui, soprattutto nelle parole dei giovani, è una convinzione sincera e solidissima.
Oggi l’Europa è ormai l’essenza del Granducato, il genius loci. E prende forma nella produzione di ricchezza – è il Paese europeo con il livello più alto di Pil pro capite, più di 80 mila euro (l’Italia è a meno di 27 mila) – e nel permettere alla capitale di essere la città più sicura al mondo (secondo la società di consulenza Mercer).
Il Paese, però, ha da sempre bisogno di energie da importare, anche al di là delle esigenze della Ue. Quando la sua industria dell’acciaio decollò, servivano lavoratori: arrivarono italiani e portoghesi. Quando questa andò in crisi, negli Anni Settanta, riuscì a creare un settore finanziario che ha permesso di attrarre capitali e di creare occupazione. Oggi i cambiamenti nel settore e lo scandalo LuxLeaks (favoritismi fiscali) rendono più fragile la finanza, anche se banche e gestione dei patrimoni sono ancora uno dei grandi datori di lavoro: il governo ha dunque deciso di puntare sempre più in alto. Da qualche anno, ha scoperto lo spazio e dallo scorso autunno ha creato un’agenzia spaziale, all’interno del ministero dell’Economia. Ma non per lanciare satelliti. «L’obiettivo è creare una new economy nello spazio – riassume Marc Serres, l’amministratore delegato della Luxembourg Space Agency – L’uso di risorse dallo spazio non è una novità assoluta ma potenzialmente rivoluziona il modo di procurarsele», dice. Si tratta di andare sulla Luna, su Marte, sugli asteroidi per estrarre risorse da portare sulla terra. Dunque, il Lussemburgo si è dato l’obiettivo di diventare un hub per le aziende che intendono intraprendere questo business: fornisce servizi, competenze, ingegneria, finanza per attrarle nel Paese. Unico requisito, che abbiano qui la sede. «Al momento abbiamo una comunità di 40-50 imprese e alcune start-up – dice l’amministratore delegato – La parola chiave è diversificare. Diversificare la nostra economia come abbiamo fatto in passato dall’agricoltura all’acciaio ai servizi finanziari».
Ambizioni grandi in questo piccolo granducato, l’ultimo nel mondo con una forma istituzionale del genere, retto oggi dal granduca Henri. Piccolo ma con una identità forte e definita. Nel «Ruggito del Topo», il film del 1959 con Peter Sellers tratto dal romanzo di Leonard Wibberley, un piccolo ducato sulle Alpi francesi assiste al crollo della sua economia, fondata sul vino. Il conte si risolve dunque a dichiarare guerra agli Stati Uniti con un esercito di venti uomini, certo che Washington, dopo avere stravinto, risolleverà le sorti dell’economia degli sconfitti, come fece con la Germania pochi anni prima. Ma, causa colpi di scena, il minuscolo ducato rischia drammaticamente di vincere. È la storia, non la dimensione, a creare futuro e a dare voce.