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 2019  marzo 16 Sabato calendario

The Vessel

Microsondaggio propedeutico a questo articolo. Benedetta, quasi tredici anni, sta guardando sul telefonino in lingua originale
Gossip Girl
, serie Netflix. «Sai che cosa è la Rai?». «Rai? Mi ricordo Rai YoYo, c’entra qualcosa?». Giulio, dieci anni, sta guardando sul tablet uno youtuber che stila la classifica dei dieci animali più pericolosi della Terra. «Sai che cosa è la Rai?». «No».

«Vai e trasformala in un’azienda sana e moderna. E delle pressioni dei partiti fottitene», disse Matteo Renzi ad Antonio Campo Dall’Orto quando lo condannò alla direzione generale della Rai, è l’estate 2015, e una domanda unisce riga dopo riga le 219 pagine del libro di Carlo Verdelli (Roma non perdona. Come la politica si è ripresa la Rai, Feltrinelli), ovvero come si conciliassero i propositi rottamatori del Rottamatore con le rottamazioni quotidiane dell’energico colonnello dem Michele Anzaldi: «Questi non hanno capito chi ha vinto», disse a un certo punto. Cioè non avevano capito che dovevano fottersene dei partiti, tranne di uno, il Pd.
Non lo aveva capito Dall’Orto né tantomeno Carlo Verdelli, oggi direttore della Repubblica, allora scelto per la direzione generale dell’offerta informativa. In pratica, Verdelli era deputato a studiare un piano che riconsegnasse al giornalismo Rai un rantolo di contemporaneità. Visti i numeri, si direbbe più tranquillizzante la scalata invernale del Nanga Parbat: quasi 1800 giornalisti, dieci testate, undici sedi di corrispondenza all’estero, un numero di edizioni di telegiornale compreso fra le 25 e le 27 al giorno (ci sono più tg che notizie, anche sforzandosi), una testata, il Tg Regionale, che con un organico di 663 giornalisti è la redazione più grande d’Europa: 25 sedi per venti regioni.
Dunque immaginate di prendere questo esercito con suole di cartone e di traslocarlo nel millennio attuale. Questo esercito di direttori, vicedirettori, inviati, capiredattori, graduati e vicegraduati, di cronisti, di compilatori, di abbondantemente stipendiati, più numerosi e più onerosi di quelli della Bbc, e immaginate di dirgli: bisogna cambiare (cambiare è un verbo abrogato nell’universo Rai, scrive Verdelli). Immaginate poi che il medesimo verbo vi tocchi di impegnarlo a cospetto dell’Usigrai, il mitologico sindacato interno, del consiglio di amministrazione, della Vigilanza Rai, una versione moderna della Santa Inquisizione, da cui del resto ha ereditato la sede di piazza San Macuto. Immaginate di poterla spuntare?
Il piano di Verdelli – temerario – prevedeva il dimezzamento nel giro di pochi anni delle edizioni dei tg, la chiusura delle sedi regionali sostituite da cinque strutture base e da una rete di redattori territoriali multimediali (giornalisti cioè che facciano video, foto e brevi testi anche per il web, un implicito ovvio per chi non sia rimasto alle videocassette), l’uso di un inviato per più testate, di modo che alla conferenza stampa di Pinco Pallo non ne arrivino in dodici ognuno col suo griffato microfono. Ecco, immaginate che fine possiate fare. Roma non perdona più che un libro è un viaggio nel ventre della balena: ossia ingoiati e risputacchiati fuori. Si dimetterà Verdelli, si dimetterà campo Dall’Orto, si dimetteranno in massa. Di modo che il ciclo ricominci.
E infatti quante volte avete sentito lo slogan «fuori i partiti dalla Rai»? Migliaia. Non c’è governo che non se ne incarichi, con le premesse che però soltanto un fantolino come Luigi Di Maio poteva proclamare: la più grande sfida del nostro governo – dice, e Verdelli annota estasiato – è «mettere le mani sulla Rai (...) tenendo lontano le mani della politica». Fantastico. Andrebbe scritto sui muri, uno slogan all’altezza di Tomasi di Lampedusa nel tempio dove la pratica gattopardesca è dichiarata, felicemente realizzata, dove insomma tutto cambia di modo che prima o poi sia il turno di ognuno, l’altro ieri i berlusconiani, ieri i renziani, oggi i grillin-sovranisti, e in definitiva nulla cambi: la tavola è apparecchiata per tutti. Almeno finché dura, e non durerà a lungo.
«Il destino di questa azienda non mi preoccupa più – scrive una giornalista a Verdelli arreso -, mi spiace essere parte di un organismo che respinge i migliori. Noi, i non corrotti, i non burocrati, siamo tanti ma siamo pigri. E siamo prigionieri dei nostri privilegi. Dovremmo fare qualcosa per spezzare tutto questo». Ma l’auto di Verdelli, ormai
, si era già allontanata.