la Repubblica, 16 marzo 2019
La Cina e il nostro debito pubblico
ROMA Sul Memorandum tra Italia e Cina c’è un fattore che per gli americani ha assunto un rilievo fondamentale. Si chiama “debito pubblico”. E non si tratta di quello che pesa sulle casse di Washington. L’amministrazione Usa fa proprio riferimento a quello italiano. Naturalmente le perplessità della Casa Bianca, confermate ieri nel colloquio che il Ministro degli Esteri Enzo Moavero ha avuto con l’ambasciatore statunitense a Roma, Lewis Eisenberg, presentano una serie di sfaccettature. Una delle quali riguarda certamente la sicurezza nelle telecomunicazioni. Ossia l’ormai famoso caso Huawei. Eppure il nodo del nostro debito sovrano ha assunto un ruolo particolare nelle trattative e nelle proteste che dagli Stati Uniti sono atterrate sul suolo italiano. Il tutto nasce dalle due visite che a settembre e a novembre scorso il vicepremier, Luigi Di Maio, accompagnato in un caso anche anche dal ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha compiuto proprio in Cina. Come era prevedibile l’oggetto degli incontri avuti dalla delegazione italiana si concentrava sui rapporti commerciali tra i due Paesi. Lo sviluppo verso est del nostro export viene del resto considerato cruciale e ineludibile da tempo. Ma l’allarme americano è scattato quando in quei dialoghi è stato sollevato un altro argomento: il debito sovrano, appunto. Erano i giorni in cui l’Italia e il nostro governo stava affrontando i picchi più alti di spread, il differenziale tra Btp e Bund tedeschi. I tassi di interesse sui nostri titoli di Stato viaggiavano su percentuali che erano state abbandonate da almeno cinque anni. E in quella fase i rappresentanti del nostro esecutivo hanno chiesto a quello di Pechino se erano interessati anche ad acquistare almeno una parte del nostro debito sovrano. Un modo – era la riflessione fatta in quei giorni – per abbassare la tensione finanziaria nella speranza di rendere più agibile la Legge di Stabilità in via di elaborazione. Proprio quell’interrogativo ha provocato la reazione di Washington. Acquisire il controllo di una quantità consistente di debito pubblico italiano equivale infatti a porre sotto il controllo cinese il destino economico dell’Italia. A consegnare le chiavi di uno dei Paesi con il più alto debito pubblico del mondo a Xi Jinping. E di conseguenza affidare all’Impero Celeste una sorta di golden share sull’Unione europea. Al di là del disinteresse per la Ue, Donald Trump non può nemmeno accettare che il Vecchio Continente possa diventare una sorta di protettorato finanziario della Cina. Allargherebbe oltre misura la sua sfera di influenza e la capacità di determinare le sorti mondiali Non è un caso che anche Bruxelles in questi giorni abbia protestato contro le scelte di Roma. Controllare il bilancio del terzo paese dell’Unione è come avere un fiches senza limiti da giocare ogni volta che serve e ogni volta che necessita disarticolazione di quell’area. Anche per i cinesi, del resto, è più facile negoziare con i singoli membri europei piuttosto che con l’Ue, soprattutto se al suo interno c’è un socio forte come la Germania. Il Memorandum, quindi, è stato interpretato come la conferma che il dialogo italo-cinese potesse investire anche quel campo. Naturalmente oltre a questo aspetto, c’è anche l’altro che concerne sicurezza e reti infrastrutturali. La vicenda Huawei è emblematica. Le telecomunicazioni sono un elemento di preoccupazione fondamentale perché potenzialmente tocca anche la sicurezza Usa e della Nato. Le comunicazioni militari, ad esempio, corrono anche su quella rete. Ma anche le altre infrastrutture rappresentano un elemento difficilmente digeribile da Washington. Non è un caso che nelle interlocuzioni informali sia stato puntato l’indice su un porto italiano: quello di Trieste. Lo scalo friulano viene considerato la porta che può aprire alla “invasione commerciale e finanziaria” dell’Europa da parte della Cina. In occasione della terribile crisi in Grecia di pochi anni fa, l’intervento di Pechino sul porto di Atene era dettato proprio dalla necessità di gestire un accesso da oriente verso l’Europa. Che si è però rivelato poco agevole soprattutto per il trasporto terrestre delle merci attraverso i paesi balcanici. L’Adriatico supera invece tutti gli ostacoli. In questi giorni allora il Memorandum è stato via via svuotato. Molti degli appunti mossi dagli Stati uniti sono stati recepiti dall’Italia. Le perplessità dell’amministrazione Trump, però, in realtà restano. Anche perché il dubbio di Washington a questo punto ha un nucleo che si chiama “affidabilità”. Il governo italiano – ed è la frase che più di una volta il vicepremier Salvini ha ripetuto – si sta mostrando inaffidabile agli occhi della Casa Bianca. Un giudizio che in genere non aiuta l’attività degli esecutivi italiani. Le contromisure adottate, sono in parte ufficiali e in parte ufficiose. L’irrobustimento del Golden Power è un tentativo di rassicurare gli Usa sull’idea che lo scambio commerciale con Pechino non arriverà al punto di trasferire la proprietà di reti infrastrutturali sensibili o di avallare operazioni contrarie all’interesse nazionale. E in questo caso in contrasto pure con la sicurezza europea e Atlantica. Ma soprattutto gli “emissari” della maggioranza gialloverde hanno cercato in queste ore di cancellare la prospettiva di un coinvolgimento cinese nel debito pubblico. Garanzie informali che non ci sarà alcun allargamento delle maglie verso Pechino e che la maggioranza dei nostri Btp e Bot resteranno all’interno dei confini nazionali. La contropartita richiesta è quella di correggere alcune delle scelte compiute dagli States negli ultimi anni. Investimenti non solo verso l’area del Pacifico ma anche verso l’Atlantico. Verso l’Italia e il Vecchio Continente.