la Repubblica, 16 marzo 2019
Biografia di Brenton Tarrant, suprematista bianco
Dunque chi è davvero il demone di Christchurch? E da quale album di famiglia affaccia? Per entrare nella testa e nella vita dell’Uomo Bianco Brenton Tarrant, e dunque nell’abisso in cui ci ha trascinati, c’è una chiave, ad oggi la sola. Lo schizofrenico colloquio con se stesso, incubato al computer nelle due settimane prima dello scempio e confezionato nel format universale della ipotetica domanda e della risposta senza contraddittorio (Q&A), che questo “millennial” di 28 anni da Grafton (New South Wales, Australia) ha affidato con un file zippato a una lavagna elettronica di Internet prima di avviarsi alla mattanza in streaming. “The Great Replacement”, la Grande Sostituzione, l’ha titolata, illustrandone la copertina con l’immagine del Sole nero, simbolo della runologia esoterica al centro di una cosmogonia in otto spicchi, uno per ogni capitolo di un manifesto contemporaneo di 74 pagine per la protezione e la difesa della «razza bianca ed europea»: «Anti Imperialismo, Ambientalismo, Mercati responsabili, comunità libere dalle dipendenze, Legge e Ordine, Autonomia Etnica. Protezione della cultura e del patrimonio etnico, diritti dei lavoratori». Otto spicchi. Otto come il numero venerato dal misticismo nazista perché corrispondente alla lettera “H” di Hitler.
Un Bianco «qualunque», scrive di sé. Cresciuto in una famiglia «qualunque» nell’Australia Sud-Orientale, il continente “Down Under”, il pezzo di Europa “giù di sotto”, di cui Tarrant rivendica il sangue «gallese, scozzese, inglese, irlandese». Il padre, Rodney, è un atleta e se ne va per un tumore a 49 anni. Lui resta con la madre, insegnante, e una sorella. Ha finito per dovere l’università – scrive -. E, a 20 anni, ha dunque trovato lavoro come personal trainer al “Big River gym”, una palestra di Grafton, la città di 19mila anime in cui è cresciuto. È accudente con i clienti, «dolce con i bambini», metodico al limite dell’ossessione nella cura del proprio corpo, dirà poi chi lo ha conosciuto a valle dei 49 morti che si è lasciato dietro, con lo stupore ordinario di chi, regolarmente, dopo ogni mattanza, non può credere di aver incrociato l’indicibile senza riconoscerlo. Investe i suoi risparmi in Bitconnect, una criptovaluta. E, dopo aver accompagnato la bara del padre, svuota il suo salvadanaio virtuale per finanziarsi un viaggio lungo sette anni, dal 2011 al 2017.
Attraversa il Sudest-asiatico, passeggia da turista nelle strade di Pyongyang (Corea del Nord), raggiunge il Pakistan e la Cina, «la Nazione a me più vicina per i suoi valori politici e sociali», arriva in Europa, di cui dice di sentirsi «parte». Attraversa Spagna e Portogallo. In Inghilterra, impara a disprezzare il sindaco di Londra Sadiq Khan, «un invasore musulmano pachistano, chiaro simbolo del ricambio etnico imposto agli inglesi». In Germania, battezza la cancelliera Merkel «prima della lista dei traditori che meritano di morire come tali per aver consentito in Europa la pulizia etnica degli europei».
Quindi, siamo tra l’aprile e il maggio del 2017, raggiunge la Francia. Dove, se dobbiamo credere al suo soliloquio, in una sequenza che scatena una reazione psicotica, prima la morte di Ebba Akerlund (la bambina di 11 anni morta in un attacco terroristico islamista a Stoccolma il 7 aprile), quindi l’elezione di Macron a Presidente e la visione della «contaminazione» della provincia profonda del Paese, lo spingono a varcare la sua linea d’ombra. «Quello che era stato sin lì parte della mia vita, vale a dire il cinismo con cui guardavo agli attacchi mossi dall’invasore all’Occidente si era dissolto. Non potevo più voltare le spalle». Fino al punto da essere preda di un’indicibile collera nel parcheggio di un grande supermercato in una città dell’Est francese. «Ero nella mia macchina in affitto. Dovevo comprare delle cose da mangiare e mi accorsi dello sciame di invasori che entravano nel centro commerciale. Per ogni uomo o donna francese, il doppio degli invasori. Lasciai immediatamente la città, in un’altalena di emozioni: collera e disperazione di fronte a quello spettacolo indegno».
In quel maggio 2017, Tarrant è una bomba innescata di fronte alla quale la domanda non è se esploderà, ma quando e dove questo accadrà. È un solitario dalle radici recise, orfano di padre, alla deriva in un continente che dice suo. È un ventiseienne che comincia a fagocitare in Rete ogni boccone avvelenato che lo strutturi nella decisione che evidentemente ha già preso. Nel suo Pantheon di Bianco suprematista che si autoradicalizza entrano allora Anders Breivik, lo sterminatore norvegese di Utoya (77 morti), l’americano Dylan Storm Roof (9 morti nella strage di afro-americani di Charleston), e vecchi arnesi come David Lane (fondatore del gruppo terroristico neonazista “The Order” e morto in carcere dopo una condanna a 190 anni di reclusione), piuttosto che Oswald Mosley (fondatore dell’Unione britannica dei fascisti in quel del 1932), come il trumpismo dell’americana Candace Owens, giovane nera e fenomeno social della alt-right, piuttosto che Luca Traini, il “lupo” italiano di Macerata cui concerà l’onore delle armi nel giorno della mattanza, iscrivendone il nome su uno dei caricatori svuotati contro gli innocenti in moschea.
Speculare nella sua parabola di auto-radicalizzazione agli islamisti che odia e a cui ha dichiarato guerra, Tarrant è per altro, come loro, figlio di un tempo digitale in cui si dà la morte in streaming e alla morte ci si addestra giocando in 3D. «Ho imparato il significato della razza sulla playstation con Spyro Dragon 3. Ho imparato a uccidere con Fortnite», scrive.
«Resterò in prigione fino al giorno in cui mi uccideranno o mi rilasceranno o quando arriverà il tempo in cui la situazione complessiva mostrerà la sconfitta della nostra gente. A quel punto, mi suiciderò, felice di sapere che ho fatto del mio meglio per impedire la morte della mia razza», promette.