Il Messaggero, 16 marzo 2019
Salvatore Esposito: «Interpreto un giornalista ambizioso, un personaggio diviso tra luce e ombre. Ma essere Savastano non mi stanca: gli devo tutto»
Salvatore Esposito, attore, è nato a Napoli.
Se morite dalla voglia di ritrovarlo nei panni di Genny Savastano, il feroce boss di Gomorra, dovete aspettare il 29 marzo, data in cui la quarta stagione della serie-cult partirà su Sky Atlantic con molte sorprese. Ma se siete ansiosi di vedere l’altra faccia di Salvatore Esposito, l’attore che fino a sette anni fa serviva hamburger in un McDonald alla periferia di Napoli e oggi, a 33, è tra i nuovi talenti più amati dal pubblico, andate al cinema il 21 marzo: in L’eroe, noir diretto dall’esordiente Cristiano Anania, Salvatore interpreta il ruolo spiazzante di un giornalista mediocre ma ambizioso fino alla spregiudicatezza. E l’occasione di fare il botto gliela offrirà un grave caso di cronaca, il rapimento di un ragazzino, avvenuto nel paese di provincia in cui l’uomo è stato spedito dal capo deciso a liberarsi di lui. Dov’è la verità e quanto il fatto accaduto è frutto di manipolazione? Queste le domande a cui tenta di rispondere il film che il napoletano Salvatore, figura maestosa e recitazione sensibile, interpreta con molto coinvolgimento.
Perché, da cosa è stato attratto?
«Dalla possibilità di tratteggiare un personaggio non scontato, fatto di luci e ombre, bene e male come ciascuno di noi. Inseguo le sfumature, nel mio lavoro fanno la differenza. Inoltre la storia stimola una riflessione».
Su cosa?
«Sull’informazione. In tempi di fake news e notizie pilotate è un tema cruciale per la nostra società».
Un attore può esprimere le proprie idee anche al di fuori del lavoro?
«Certo, è un cittadino e deve dire la sua, ovviamente in forma non oltraggiosa, specialmente oggi che troppe cose non vanno, dalla politica sull’immigrazione alla discriminazione degli omosessuali».
Un gay l’ha interpretato anche lei in Puoi baciare lo sposo, ma il successo lo deve a Genny di Gomorra: a quel personaggio la lega un rapporto di amore e odio?
«Di sicuro è un rapporto indissolubile: a lui devo tutto».
Dica la verità: non si è ancora stancato di interpretarlo?
«No, perché Genny ha avuto un’evoluzione sorprendente. Nella prima stagione, a capo chino, chiedeva al padre di comprargli una moto rossa. Nella quarta, ormai un boss affermato, affronterà l’ennesima sfida che potrebbe addirittura farlo uscire dalla criminalità».
Davvero? Significa che diventerà una persona onesta?
«Ovviamente non posso rivelarlo, ma è stato bello girare la serie che contiene molti colpi di scena».
Dagli hamburger al successo: pensa di essere cambiato?
«Forse oggi è diverso il modo in cui gli altri mi percepiscono, ma io mi sento lo stesso e sono felicissimo quando la mia riuscita serve di esempio ai ragazzi che crescono nelle periferie e sono tentati di imboccare scorciatoie pericolose».
Perché lei tre anni fa ha scritto il libro autobiografico Non volevo diventare un boss (Rizzoli)?
«Volevo dimostrare ai più giovani che, anche nelle zone più difficili, c’è sempre una possibilità di farcela e bisogna lottare senza risparmio per inseguire i propri sogni».
Cosa prova quando Gomorra e gli altri romanzi criminali vengono accusati di stimolare una pericolosa emulazione?
«Non sono d’accordo. La serie ideata da Roberto Saviano mette invece in guardia contro i rischi del crimine: i suoi protagonisti o vanno in galera o finiscono ammazzati».
In Italia è una star, in Francia ha girato Taxi 5 di Luc Besson: pensa di far parte della nuova generazione destinata a svecchiare il cinema?
«In Italia non c’è mai stata la volontà di creare un nuovo star system. Soprattutto oggi, in tempi di crisi, si preferisce l’usato sicuro».
Qual è la spesa più pazza fatta da quando guadagna bene?
«Nessuna, direi. Con i primi soldi ho comprato una casa a Roma ma niente lussi, è in un normalissimo condominio».
Chi sono per lei gli eroi?
«I ragazzi di periferia che ogni mattina si alzano presto e vanno a lavorare, senza farsi tentare dai guadagni facili».
Cosa chiederebbe ai nostri politici?
«Di essere più buoni. Più umani».